
Il ricordo dell’incontro di una delegazione di monrealesi col Pontefice avvenuto otto anni fa
Aveva iniziato il suo servizio di vescovo di Roma con un sorriso disarmante, in piedi, dall’alto del loggione di S. Pietro augurando, con voce chiara, ‘buonasera’ ai presenti nella piazza, benedicendo il mondo intero e chiedendo preghiere per la sua persona.
Ha chiuso il suo ministero nel giorno di Pasqua salendo per l’ultima volta sul loggione per pronunziare con voce fioca la benedizione ‘urbi et orbi’ e scendendo nella piazza per un giro di addio in carrozzella in mezzo alla sua gente. Un copione evangelico che ricordava l’amore di Gesù per i suoi sino alla fine e il “tutto è compiuto” di Cristo crocifisso sulla croce.
A queste immagini istintivamente ho associato la scena della salita solitaria durante la pandemia dalla piazza al Crocifisso, esposto davanti l’ingresso della basilica di S. Pietro. In quel momento buio per tutta la Terra egli saliva dalla piazza-mondo e nella sua persona consegnava l’umanità sofferente a Gesù morto in croce, il ‘fratello universale’; nell’ultima sera della sua vita scendeva nella piazza per affidare all’umanità il Crocifisso presente nella sua persona, priva di forze, testimone sino alla fine della fratellanza universale. Francesco ci ha abituato a questo suo bisogno di comunicare in modo personale, diretto e senza filtri e così si è consegnato alla rappresentanza di Monreale nell’incontro del 30 settembre 2017.
Sento ancora la sua voce, ricordo le sue parole, mi sento addosso il suo sguardo di tenerezza, ma soprattutto rivivo il clima di vicinanza che seppe creare in quelle velocissime due ore, ascoltando con attenzione le nostre domande, donandoci un racconto immediato di se stesso, e stringendo la mano ad ognuno dei presenti.
Era questo lo stile di Francesco che comunicava con i gesti prima che con le parole. Nei dodici anni di pontificato ha scritto pagine straordinarie, ha pronunziato discorsi memorabili, ma soprattutto ha parlato a tutti, sin dal primo viaggio a Lampedusa, con gesti semplici. Visitando la terra santa aveva chiesto all’autista di fermare la macchina soltanto per ‘toccare’ con la sua mano il muro che separava israeliti e palestinesi. Nella potenza simbolica del gesto vedevi la ‘geminazione psicologica’ dell’uomo e sacerdote Bergoglio, che si era formato alla scuola di Gesù, vero uomo e vero Dio, e nella semplicità di questo annunzio c’era il profumo della vita e la gioia del Vangelo.
La vita di Gesù è rivelazione del vero volto di Dio, la cui gloria risplende nell’uomo vivente, come diceva S. Ireneo. Qualsiasi deturpazione provocata dal male non può cancellare l’immagine originaria impressa dal Creatore in ogni persona e la Chiesa, ospedale da campo, deve spendersi per il recupero della sua luminosità. Ma ciò che è semplice spesso risulta difficile, come dimostra l’incomprensione di alcuni, perché il regno dei cieli appartiene a chi diventa come i bambini (Matteo 18,2).
Il suo stile era quello di Gesù che cominciò la sua opera a partire “dai ciechi, dagli zoppi…”; lo stile di una parte significativa della Chiesa testimoniato da scelte controcorrente come quelle di Teresa di Calcutta, di Giovanni Bosco, di S. Vincenzo de’Paoli, di Filippo Neri …. Queste opere sono segno della vitalità della Chiesa, ma nella considerazione generale sono il frutto delle personali intuizioni di alcuni santi e restano marginali nello spirito della Chiesa in quanto tale.
Francesco, invece, vide in questa scelta la vera missione di tutta la Chiesa, soprattutto nel momento storico che stiamo vivendo dove il potere della ricchezza e della tecnologia rischia di diventare assoluto e disumanizzante. Parafrasando un vecchio slogan della rivoluzione studentesca “la fantasia al potere” potremmo dire che la rivoluzione teologica e culturale di Francesco ha portato la profezia al potere. Solo con una visione che salda insieme i due modi di interpretare la relazione, la struttura e l’uomo di potere, di qualunque potere, diventano capaci di servizio, piegano le ginocchia per lavare i piedi, si mettono dalla parte del samaritano di turno e non pronunciano parole astratte, frutto di semplice conoscenza delle pagine della Scrittura. E’ eloquente, sotto il profilo simbolico, la scelta di visitare le tombe di profeti periferici come Don Milani, Don Primo Mazzolari, Don Tonino Bello, come pure l’apertura della porta santa in Africa o nel carcere romano.
Francesco ha proposto ad ogni credente questa linea profetica, che diventa credibile nell’annuncio del senso pieno della vita, che è l’essenza del messaggio di Gesù di Nazareth, e nella denuncia delle tossicità di ogni forma di prevaricazione che avvelena l’uomo con la chiusura degli spazi umani in recinti, con il prosperare delle ideologie, con l’innalzamento delle barriere che dividono e che creano una comunione tribale e una finta pace, frutto della eliminazione del diverso.
Una rivoluzione globale radicale, ma non ingenua, che va al cuore della vita e grida, senza giri di parole, le stesse speranze, umane e trascendenti, presenti in ogni uomo; che sa vedere nel conflitto non solo un punto di arrivo ma di partenza, l’occasione per elaborare percorsi inediti, mai conclusi, di incontro in nome dell’appartenenza all’unica famiglia in una casa comune. Una rivoluzione dove ogni forma di religiosità non usi il nome di Dio in una delle declinazioni integraliste che tanta sofferenza hanno prodotto nella storia, ieri come oggi.
La rivoluzione, con la quale Francesco, nuovo Abramo del nostro tempo, ha iniziato un cammino ‘sinodale’ di discernimento per riportare la Chiesa alle sue origini e l’umanità alla sua vera identità dal punto di vista sociologico è sicuramente ardita e, anche per questo, difficile da accettare per chi governa. L’istituzione, infatti, è pietrificata, statica e gioca in difesa, mentre la profezia è magmatica, in movimento e aperta verso soluzioni migliorative. La reazione alla sua lucida e coerente testimonianza è lo stessa di quella riservata a Gesù: il popolo ha amato la sua persona diventata vangelo e parola di vita, come testimonia l’affetto di tanti che hanno voluto esprimere la propria gratitudine attraverso l’ultimo saluto; coloro che erano sazi e i potenti della terra, nonostante le postume e talvolta strumentali esternazioni, avevano preferito ignorare le sue parole o denigrarlo.
Ricorderò quel giorno come il momento della consegna di un testamento da rileggere e da onorare quotidianamente. Un testamento semplice ed essenziale che invita a essere “imitatori di lui in quanto imitatore di Cristo”, costruttori artigianali di ponti In una società sempre più competitiva, fedeli alla grammatica elementare della vita, fiduciosi nella compassione come sostanza della fraternità e della custodia del creato, e impegnati per rendere luminosa la speranza nella vita eterna.
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