Viaggio tra alcune vittime dimenticate di Cosa Nostra
23 maggio 1992, Palermo. Esattamente 25 anni fa il magistrato Giovanni Falcone perdeva la vita sull’autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci, insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della sua scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Chiunque in quel momento stesse premendo il tasto sul telecomando a distanza, con l’intento di provocare la violentissima esplosione del tritolo, era di certo inconsapevole di cosa da quell’azione sarebbe poi scaturito, di come la Sicilia sarebbe cambiata drasticamente a partire da quel memorabile 23 maggio.
La macchina di Giovanni Falcone si accartocciava come un foglio di giornale, il fumo nero saliva al cielo, e da lì a poco urla strazianti, sirene spiegate, la disperazione di un popolo logorato dalla presenza di un mostro, una piovra prepotente, un albero malato le cui radici si radicavano giorno dopo giorno diffondendo illegalità e morte con la stessa facilità con cui si diffonde un raffreddore.
Non è solo questo che volevamo raccontare oggi. Oltre le passerelle, i cortei di bambini e ragazzi, le celebrazioni ufficiali e i consueti discorsi dei media, nel “giorno della memoria” era giusto che altre testimonianze venissero portate alla luce, che il volto oscuro e ripugnante di Cosa Nostra venisse svelato nella sua pienezza. È per questa ragione che in occasione della giornata della memoria un gruppo di militanti provenienti dal Nord Italia, impegnato già da tempo in un percorso di legalità, è accorso in Sicilia e ha seguito il percorso proposto dagli uomini appartenuti alla scorta dello stesso magistrato Falcone, spostandosi da Palermo, dove si tenevano le consuete commemorazioni, verso la provincia di Caltanissetta, dove ha assistito a preziose e toccanti testimonianze di vittime di Cosa Nostra.
21 novembre 1990, Riesi. In un paesino vicino alla valle del fiume Salso della provincia di Caltanissetta, un uomo di nome Luigi Volpe passeggiava indisturbato in compagnia del figlio Giuseppe, allora dodicenne. Sarebbe stata una passeggiata come tante se solo padre e figlio non si fossero trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. La vita del padre di Giuseppe, che oggi divenuto adulto racconta per la prima volta il tragico avvenimento che ha sconvolto per sempre la sua esistenza, è stata stroncata quel giorno da un colpo di lupara. “Era una guerra. Eravamo tutti in allerta, ogni sera c’era come un coprifuoco”, asserisce l’uomo durante la sua prima intervista, a distanza di 27 anni, ricordando i tempi precedenti all’uccisione del padre. Le faide tra i clan mafiosi dell’entroterra siciliano diffondevano all’epoca un’indicibile sentimento di paura tra le piccole realtà di paese, quasi ogni sera l’esplosione di qualche automobile completava il quadro di un contesto sociale già enormemente difficile.
14 febbraio 1989, Niscemi. Per tanti facilmente ricordabile semplicemente come il giorno di San Valentino, la festa dell’amore, per la signora Franca Pepi, la figlia di Francesco Pepi, un giorno diverso da tutti gli altri, il peggiore, il giorno del dolore. L’imprenditore Francesco Pepi, proprietario di un’apprezzata azienda operante nel settore alimentare, e precisamente nella produzione di carciofi e altri prodotti sott’olio, veniva freddato dagli esponenti di Cosa Nostra. Il boss Francesco Madonia, insieme ad altri uomini della criminalità organizzata, alcuni di questi addirittura amici o conoscenti di Franca Pepi e della sua famiglia, aveva già deciso che suo padre dovesse essere messo a tacere per sempre; il destino di un uomo così apertamente avverso alla malavita, ribelle, un uomo che incitava gli altri commercianti nella sua stessa situazione a non dover cedere alle minacce della Mafia, a denunciare le estorsioni come lui stesso aveva fatto già nel 1985, era ormai tragicamente segnato. Oggi la signora Pepi è una donna forte che, pur avendo perso il padre e tutto ciò che egli aveva costruito nell’azienda di famiglia, devastata anch’essa dall’intervento di Cosa Nostra, racconta a testa alta la sua storia, un esempio di immenso dolore ma anche di ammirabile coraggio. “Perché mio padre è stato ucciso? Che cosa era successo?”, si chiedeva dopo quel tragico San Valentino; e ancora “per trent’anni solo domande senza risposta e poi, finalmente, la sentenza”. Francesco Pepi era un uomo innocente, scomodo per tanti. Niscemi era allora il teatro di una sanguinosa guerra tra clan, quello di Cosa Nostra e quello della “Stidda”, ed era proprio un esponente del secondo che, nel marzo di quattro anni fa, rivelava la vera natura dell’omicidio Pepi, divenendo così un collaboratore di giustizia. “Ero in cerca della verità, delle certezze, e grazie alla Giustizia ho potuto trovarle”, sono queste le parole di Franca Pepi oggi che, pur essendo ancora un soggetto esposto alle grinfie di Cosa Nostra, apre la sua casa a chiunque voglia sentire la sua storia, fatta di terrore ma esempio valoroso di lotta nell’affermazione della legalità. Tra pochi mesi, la via in cui è situata la casa di famiglia e quel che resta dell’azienda, porterà il nome di Francesco Pepi.
18 giugno 1983, Niscemi. Una ragazza appena diciottenne di nome Patrizia Scifo scompare per sempre. Oggi è sua figlia Monica che porta con coraggio la sua testimonianza. Patrizia era la figlia di Vittorio Scifo, un facoltoso uomo noto a Niscemi e non solo con l’appellativo di “Mago di Tobruk”, che viveva una vita mondana tra Roma e Parigi e tornava solo di rado per gestire insieme alla moglie il bar di famiglia sulla piazza principale. Scifo era anch’egli un soggetto esposto alle grinfie di Cosa Nostra tanto che, per convincerlo a pagare il pizzo, gli esponenti della mafia di Caltanissetta avevano fatto sì che uno di loro, Giuseppe Spatola, intraprendesse una relazione amorosa proprio con la figlia del “Mago”, la giovanissima Patrizia. Da questa relazione sarebbe da lì a poco nata Monica, la donna che oggi racconta questa triste vicenda. “La relazione di mia madre con quest’uomo divenne poi malata a tal punto che lui la sottoponeva a delle disumane torture, come lo spegnere delle sigarette sul suo corpo o “giocare” alla roulette russa”, sono queste le parole di Monica, la quale all’età di sette mesi veniva privata delle cure della madre, strangolata in seguito dal suo aguzzino. Anche il nonno di Monica, il famoso “Mago di Tobruk” avrebbe poi perso la vita, ucciso mentre tentava disperatamente di ritrovare il corpo dell’amata figlia, ancora ad oggi mai ritrovato. “Continueremo a cercare”, dichiara la donna, mentre racconta coraggiosamente la sua storia accanto alla zia, che insieme alla nonna si è sempre occupata di lei, suscitando emozione ed angoscia tra i presenti, colpiti da una trama che pare quasi essere quella di un tragico film.
Ognuna di queste storie lascia chi le ascolta a bocca aperta ed ognuna è punto di partenza per una serie di articolate riflessioni. Mentre a Palermo si celebrava la giornata per eccellenza dedicata alla memoria di Giovanni Falcone e ai tanti uomini che hanno dato la loro vita pur di perseguire con dedizione gli ideali di giustizia, qualcuno, in un’altra parte della Sicilia raccontava la storia della propria vita, vissuta tra realtà di paese fatte di faide mafiose, estorsioni , esplosioni, sangue e violenza. Ogni uomo, che sia magistrato, operaio, imprenditore, contadino o poliziotto, merita di essere ricordato in questa giornata particolare, come asserisce Rita Borsellino durante la commemorazione a Palermo alla presenza di moltissimi giovani accorsi da ogni parte della Sicilia e dell’Italia.
La piovra siciliana ha stritolato tra i suoi robusti tentacoli Giovanni Falcone, ma anche Luigi Volpe, Francesco Pepi, Patrizia Scifo e migliaia di altri uomini e donne. È riposta in noi giovani, oggi, la speranza di un futuro migliore, un futuro in cui la nostra amata Sicilia sia solo l’isola fiorente che merita di essere; noi non dimentichiamo; noi racconteremo a tutti le storie dei caduti della mafia, non ci fermeremo. La Piovra sarà stroncato prima o poi definitivamente, e le acque del mare torneranno ad essere limpide e cristalline.
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