Cosa chiedere a monsignor Isacchi?

fumetto di Stefano Gorgone

Carissimo direttore,
indubbiamente l’avvio del ministero episcopale di monsignor Gualtiero Isacchi è stato accolto con gioia dai fedeli della nostra diocesi. Un vescovo venuto da lontano, circostanza che in alcuni ha suscitato qualche perplessità, ma che è in linea con la nostra tradizione.

Nei secoli scorsi, infatti, diversi Pastori non isolani hanno inciso profondamente nella vita civile, sociale e religiosa del nostro territorio. Sono stati vescovi illuminati come lo spagnolo monsignor Ludovico II de Torres, che nel 1590 fondò ed inaugurò il seminario come luogo deputato alla formazione dei sacerdoti arricchendolo della sua preziosa biblioteca e della pinacoteca o come monsignor Francesco Testa, di origini pisane, che contribuì in maniera decisiva alla rifondazione della nostra città, concentrandosi sugli aspetti religiosi, ma anche su quelli architettonici-artistici. Furono anni in cui la chiesa monrealese potè contare su personalità di grandissimo livello culturale e spirituale, al punto da essere definita dal Millunzi “ l’Atene di Sicilia, una scuola che non temeva il paragone di nessun’altra delle più illustri città della Sicilia.”

E’ naturale, direi doveroso, che un nuovo vescovo si muova in continuità con quanto realizzato dal suo predecessore, ma è inevitabile che abbia anche una sua visione della Chiesa, un suo modo di rapportarsi con il popolo di Dio e con il territorio. Non ho la competenza, né la pretesa di fornire anche semplici indicazioni circa un possibile piano pastorale, ma credo che un vescovo giovane qual è monsignor Gualtiero Isacchi non possa restare immobile, fisso sul presente. Anche se il sentimento religioso è ancora molto vivo Egli non può non interrogarsi sul futuro della nostra chiesa diocesana, sul perché dell’assottigliarsi del “gregge” e sulla riduzione della pratica religiosa anche a seguito della pandemia, sul perché l’uomo contemporaneo ha meno aspettative riguardo la fede, sulla crisi della famiglia che sembra avere rinunciato alla trasmissione della fede alle nuove generazioni, sulla crisi delle vocazioni, sulla necessità di ancorarsi solidamente alla realtà per cogliere le tante difficoltà e sfide del nostro tempo.

Mi pare di poter dire che vi è una domanda sempre più pressante che viene dal popolo, dal mondo dei credenti e, a mio avviso, anche dei non credenti. Si avverte sempre più l’esigenza di un Pastore che dia testimonianza di santità, che sia fraternamente vicino alle persone segnate dal dolore, che sappia affrontare le tante criticità che provengono dal mondo del lavoro, dei giovani, degli anziani soli ed emarginati, dalle tante famiglie in difficoltà economiche. Un Pastore che sappia, come afferma papa Francesco, abbracciare fino in fondo la vita del popolo della diocesi, contrastare il pessimismo e l’indifferenza sempre più diffusi, che voglia non rinchiudersi nel proprio palazzo, ma sia capace di intercettare i bisogni della gente nelle strade, accompagnare, guardare negli occhi, suscitare speranze, fare crescere nella comunione e nella fraternità, valorizzare le attitudini e le varie sensibilità pastorali.

Un Pastore che voglia apprezzare e valorizzare la corresponsabilità dei laici, uomini e donne, coinvolgendoli concretamente ed effettivamente nell’elaborazione di progetti significativi e condivisi, alimentando il loro sentimento di appartenenza alla propria comunità ed il desiderio di contribuire sempre più alla sua costruzione. Si tratta di favorire sempre più una vera e propria conversione culturale che possa aiutare a rigenerare la fede che rischia di diventare una stanca abitudine, a coltivare un sentimento di speranza per il futuro della nostra comunità civile e religiosa, nella consapevolezza, come bene affermava monsignor Naro che “c’è un appuntamento che Dio fissa per ogni generazione. Un appuntamento che non dobbiamo mancare”.