La pastoralità di Francesco in contrasto con assuefazioni e abitudini incrostate
Egregio Direttore,
memore delle abitudini maturate negli anni da me trascorsi nella città di Monreale, a motivo dell’esercizio del ministero sacerdotale, non di rado mi ritrovo ancora oggi a consultare la sua testata online, dove da qualche settimana, con dovizia di particolari, leggo e apprezzo lucidi commenti inerenti alla vita della Chiesa universale.
Mi riferisco, più precisamente, a quanto preso in esame da don Innocenzo Bellante, dalla professoressa Maria Rita Fedele e dal dottore Salvatore La Mantia; nomi a me cari, per le qualità umane e professionali che contraddistinguono le persone che ne sono portatrici. Mi sento anch’io sollecitato a condividere alcune personali impressioni.
Sin dall’inizio, a mio modesto parere, il pontificato di Francesco si è trovato nella condizione di dover dare prova più di resistenza che di resa. Tanto tra le file del mondo laicale quanto di quello clericale, infatti, non sono mancati coloro che, abbastanza presto, velatamente o persino dichiaratamente, si sono letteralmente opposti alle iniziative e all’operato del legittimo successore dell’Apostolo Pietro, additandolo ora come continuatore di quell’“aggiornamento” legittimamente auspicato per la Chiesa dal concilio Vaticano II, ora come “riformatore”, e perciò più in sintonia con un mondo non certo cattolico e, qui, in molti hanno creduto che egli potesse dare la spallata decisiva alla bimillenaria Tradizione ecclesiale.
Ed è proprio su questi due termini, tradizione e aggiornamento, che, forse, oggi più che mai, occorre tornare un po’ a riflettere. A me sembra fondamentale, innanzitutto, far luce su cosa s’intenda per tradizione all’interno della Chiesa e, a partire da essa, chiarire cosa si debba intendere per “aggiornamento”. La domanda di fondo riguarda poi la possibilità di pensare e tenere i due termini insieme e dove collocare Francesco: contro la tradizione oppure a sostegno dell’aggiornamento?
Anzitutto la tradizione. È lo stesso concilio Vaticano II, che nella Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, al numero 8, ne indica i contenuti: “Ciò che fu trasmesso dagli Apostoli comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all’incremento della fede del Popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”. La Chiesa, dunque, trasmette tutto ciò che è e che crede, lo trasmette nel culto, nella vita, nella dottrina. La tradizione è dunque il Vangelo vivo, annunciato nella sua integrità dagli Apostoli, in base alla loro esperienza unica e irripetibile: per opera loro la fede viene comunicata agli altri, fino a noi, fino alla fine del mondo. La tradizione, pertanto, è la storia dello Spirito che agisce nella storia della Chiesa attraverso la mediazione degli Apostoli e dei loro successori, in fedele continuità con l’esperienza delle origini.
Rispetto a ciò, Francesco ha solo fornito elementi di valorizzazione e di promozione, e quindi di conferma, come si evince ad esempio nel discorso rivolto agli Agostiniani Scalzi ricevuti in udienza nella Sala Clementina lo scorso settembre. Il Papa, dopo il clamore che in quei giorni era stato suscitato dalle parole su un possibile scisma pronunciate sul volo di ritorno dall’Africa, parlando ai frati dell’ordine nato nel XVI secolo si spendeva nell’elogio delle radici che sono “la tradizione che ti portano la linfa per far crescere l’albero, fiorire, fruttificare”. “Per essere moderni”, lamentava il Pontefice, “qualcuno crede che sia necessario staccarsi dalle radici”. Parole, queste, che sembrano persino riecheggiare l’insegnamento del suo predecessore: “La tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità” (Benedetto XVI, Udienza generale del 26 aprile 2006).
Quanto al termine “aggiornamento” è da collegare soprattutto agli anni del concilio Vaticano II. L’idea di Giovanni XXIII, in particolare, era quella di un Concilio pastorale e di aggiornamento. Questo suo pensiero, tuttavia, fu da alcuni interpretato in senso riduttivo e, spesso, in maniera distorta. Nella sua prima enciclica Ad Petri Cathedram, del 29 giugno 1959, il Pontefice precisava le linee principali del Concilio, ossia promuovere l’incremento della fede, il rinnovamento dei costumi e l’aggiornamento della disciplina ecclesiastica. In tale ottica, la pastoralità del Vaticano II si è posta nei termini di studio e approfondimento della dottrina, da presentare in modo che questa potesse essere meglio conosciuta, accettata ed amata. Senza pronunciarsi con sentenze dogmatiche e straordinarie, il Vaticano II avrebbe espresso, con la voce della carità pastorale, il suo insegnamento su molte questioni che al presente impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; non si sarebbe rivolto soltanto all’intelligenza speculativa, ma avrebbe parlato all’uomo di oggi. Un magistero, dunque, nel quale la nota dominante fosse quella del ministero pastorale. L’aggiornamento, in quel contesto, è stato inteso non come rottura con il passato o contrapposizione di momenti storici, ma come crescita, perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa.
Paolo VI, significativamente, ha affermato che Giovanni XXIII “alla parola programmatica “aggiornamento” non voleva attribuire il significato di relativizzazione di ogni cosa nella Chiesa secondo lo spirito del mondo: dogmi, leggi, strutture, tradizioni. “In papa Giovanni fu così vivo e fermo il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa da farne cardine del suo pensiero e della sua opera”.
In questo orizzonte non può mancare un richiamo essenziale a ciò che rappresenta la linea di continuità temporale e concettuale che va dal concilio Vaticano II a Papa Francesco. Mi riferisco alla trattazione del tema dell’aggiornamento fatta dal giovane Joseph Ratzinger, sia nella veste di perito conciliare e membro di diverse commissioni, sia come consigliere del cardinale Joseph Frings. Risultano interessanti e pertinenti, a tal proposito, tanto i contenuti degli interventi che il linguaggio utilizzato. Non si tratta di un linguaggio di scuola, perché non sono le dispute scolastiche a interessarlo, e non è nemmeno agli studiosi che egli in primo luogo si rivolge. Il suo è, sin dall’inizio, un linguaggio “vivo”, per così dire, per tutti: meditare ed esprimere il Vangelo di Cristo in un modo comprensibile all’uomo di oggi per fargli di nuovo comprendere Cristo nella sua attualità. Questo è per lui l’aggiornamento. In questo senso, Ratzinger si rivela così un “figlio del Concilio” già a partire dal suo linguaggio.
Ed è proprio nell’orizzonte di senso che, con questi dati, si costruisce ciò che mi piace intendere sia la dimensione pastorale che quella dell’aggiornamento di Papa Francesco.
Nell’intervista concessa a La Civiltà Cattolica nell’agosto/settembre 2013, alla domanda di Antonio Spadaro: “Che cosa ha realizzato il concilio Vaticano II? Che cosa è stato?”, Francesco risponde: “Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi”. Concetto ribadito il 3 marzo 2015 in una lettera inviata al Gran Cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di teologia: “Il concilio Vaticano II è stato un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo. E adesso, bisogna andare avanti”.
E andare avanti, per Francesco, essenzialmente ha significato e significa continuare a tornare a Cristo. Nella sua proposta di Chiesa è facile individuare i tratti di un recupero e una rinascita di ciò che del Vangelo, nel tempo, è stato come fissato, congelato in una visione statica e terribile di espressioni stantie e ripetute, spesso proprio a partire da chi quella Parola – di Dio – aveva invece il compito di rendere viva e di portarla a chi aveva bisogno di nutrirsene, ossia a tutti gli uomini della terra.
Parole chiave come misericordia, accoglienza, ascolto, unite ad un’immagine di sé offerta nella essenzialità di gesti e atteggiamenti semplici, ma forti nella coerenza comunicativa con quanto professato, hanno fatto di Papa Francesco l’emblema di un paradosso: proprio il suo richiamo all’autenticità del messaggio evangelico, che in concreto ha significato la sollecitazione alla vera imitatio Christi, ha generato scandalo e stupore. E questo, non solo e non tanto, in coloro che, in quanto “non addetti ai lavori” non sapevano cosa dicevano (l’uomo comune, non particolarmente attrezzato di competenze teologiche e dottrinali), ma piuttosto proprio in chi avrebbe dovuto capire, facilmente decodificare e ben contestualizzare gesti, parole e segni.
In altre parole, i competenti di dottrina teologica, gli scienziati della parola di Dio, ma anche i più attrezzati osservatori delle questioni ecclesiologiche avrebbero dovuto riconoscere nei suoi messaggi e nella sua lectio trasversale la piena adesione al richiamo di Cristo all’autenticità e alla verità dell’essere umano e al suo nudo mostrarsi davanti al Padre.
E, invece, tra questi, molti hanno forse solo avvertito come un senso di minaccia, qualcosa da cui difendersi. Sconvolti da modalità operative e comunicative diverse, rispetto alle attese costruite sul modello pastorale precedente, ma anche distanti dalla propria visione di Chiesa, si sono lasciati ammaliare dalla tentazione di un attacco che, guardato da vicino, dopo i sette anni del Pontificato di Francesco, risulta una debole difesa di posizioni di nicchia di fronte alla disarmante e universale restituzione di un’umanità all’uomo di oggi e di sempre.
Il richiamo massiccio di Francesco alla misericordia divina che sa di opportunità e di rinascita incondizionata, davanti allo sguardo amorevole di un Dio che conosce la sua creatura, obbliga chiunque a riconoscersi nel limite della propria costituzione e spinge ad opporre resistenza all’azione di Dio che cerca di incontrare anche l’ultimo uomo della terra.
Da qui, la novità di un magistero chiaro ed immediato, ma nascosto a chi non intende accoglierlo e l’accusa di essere troppo avanti, un aggiornamento – quello in Francesco – frainteso nei termini della frattura e della discontinuità.
Niente di più riduttivo. La novità dell’insegnamento di Papa Francesco, con il suo sensibile sguardo alle fragilità umane, senza giudizio per l’uomo, ma fermo sulla condanna del male, è la stessa che troviamo nelle pagine evangeliche; priva di connotazione ideologica risulta anche la sua condanna delle logiche gerarchiche e verticistiche; l’appello costante alla vicinanza al povero è insieme un richiamo alla fratellanza e alla solidarietà, a non dimenticare il dovere del più fortunato verso il più fragile.
Non si tratta, dunque, di un insegnamento sradicato dalla tradizione ecclesiale ed è al contempo un aggiornamento. Lo è nel senso dell’apertura verso i mille volti dell’uomo che abita la terra, i suoi linguaggi e le sue bellezze, così come è accoglienza verso l’uomo che sbaglia, che mostra tutta la propria fragilità e ne è consapevole, lo riconosce davanti a Dio al quale egli si affida totalmente lasciandosene guidare, come da una madre.
Niente di più sconvolgente, quindi, per chi ha dimenticato, o lasciato sulla carta, la forza del Vangelo e del suo messaggio. Frastorna, infatti, l’attenzione umile di Francesco agli ultimi, ai poveri, ai carcerati, agli anziani, ai giovani, ai sofferenti, ai lontani da Dio, accompagnata dal suo riconoscersi fratello, peccatore tra peccatori.
C’è da chiedersi perché tanto scalpore? Perché tanta sorpresa? E perché tanto accanimento? Si tratta di incomprensione o voluta delegittimazione?
Nell’uno e nell’altro caso è evidente che mancano le basi per una corretta lettura e soprattutto la volontà per una profonda presa di coscienza e un decisivo cambiamento.
È evidente che la pastoralità di Francesco è in contrasto con assuefazioni e abitudini incrostate sul piano intellettuale e spirituale, ma anche etico e psicologico.
E questo non solo fuori il mondo della Chiesa, ma naturalmente all’interno, ossia nei segmenti più aggrovigliati delle correnti e degli indirizzi di pensiero che tra gli uomini di Chiesa rappresentano orientamenti, direzioni e governo delle questioni e dottrinali e organizzative.
In fondo, la Chiesa di Francesco, evangelizzatrice e attenta alle esigenze degli ultimi, resta in sintonia con lo spirito del concilio Vaticano II e costituisce quello che potremmo definire un modello originale, ma al contempo imperniato nella tradizione ecclesiastica.
Il suo costante riferimento alla realtà concreta dell’uomo di oggi e di ogni tempo, immerso nel suo bisogno e di Dio e dei fratelli tratteggia, infatti, la fisionomia di una Chiesa il cui compito è quello di stare accanto a chi sta cercando Dio e che è capace di farsi prossimo con semplicità e umiltà, portando all’uomo il messaggio della salvezza e della misericordia di Dio con fraternità e apertura. Qui si colloca la speranza per chiunque abbia necessità di accoglienza e di ascolto, di trovare un luogo che non emetta giudizio, ma sappia accompagnare – camminare accanto – alla luce della parola di Cristo, che è parola di amore e di libertà.
Ma forse è proprio la distanza dal clericalismo, dalle tendenze settarie e frantumate in cui la Chiesa di Dio sembra essersi trovata in alcuni momenti, lo stravolgimento di una tendenziale linea all’autoreferenzialità, da parte di certa Chiesa avvezza ai propri linguaggi e ai propri temi scelti, ma lontana dal cuore e dalla vita reale del popolo santo di Dio che turba i sogni di chi non è in grado di comprendere né quanto c’è di nuovo e di fresco nel magistero di Francesco né quanto questo resti saldamente ancorato nel corpo vivo della Parola di Dio.
In questo, la pastoralità, il magistero e persino il lessico di Papa Francesco hanno la parvenza di un costrutto eterogeneo rispetto a Benedetto XVI, ma si tratta solo della veste esteriore – della forma, si potrebbe dire –, e chi si ferma a questo non coglie il continuum sostanziale col passato, ossia l’aderenza piena al Verbo di Dio, quello stesso Dio che entrato nella storia, fattosi carne, ha cercato e continua a cercare la sua creatura amata.
• docente alla Facoltà Teologica di Sicilia
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