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Soltanto le donne sanno quello che le donne non dicono

| Rosa Gullo | Cultura

L'8 marzo vengo colta sempre da profonda malinconia, che si acuisce tanto più crescono le iniziative legate a questa data in chiave "festiva". La sensazione, poi, si trasforma in vero fastidio, se tali iniziative sono legate esclusivamente ad una dimensione ludica e ricreativa.

Ristoranti e locali pubblici, nei limiti e con i vincoli della recente pandemia, propongono serate a tema e lasciano intendere che nessuna debba rinunciare ad una quanto mai rara occasione di libertà e indipendenza, come a sottolineare quasi il fatto che, nei restanti giorni dell'anno, le donne non possano, o peggio debbano, godere di un momento di convivialità tra colleghe, amiche, sorelle.

La "festa" assume il sapore amaro di una concessione, di un temporaneo permesso di fronte a ciò che è naturale e legato soltanto alla propria volontà di scegliere come trascorrere il tempo e genericamente l'esistenza. La parola "festa" in sé scatena una vera repulsione in me, quasi per paradosso: proprio in me, che per vivace natura dell'indole, amo tutto ciò che sia fonte di rilassata condivisione.

Pertanto, come antidoto a ciò che "mi disturba", in questo giorno mi affanno, in prima istanza, con ogni forza, ad attribuire alle "cose" il loro nome esatto, per personale visione della realtà certamente, ma anche, e non in ultimo, per "deformazione professionale". Non può, infatti, che essere la scuola il luogo più adatto per il mio "confronto costruttivo" . Quando, dunque, come ogni anno, qualcuno dei miei studenti chiede cosa sia l'8 marzo, rispondo, intanto, che non si tratta di una festa, ma di una "giornata internazionale", istituita per focalizzare l'attenzione su un tema, su una questione: il ruolo della donna nella società e la messa in campo di tutte le strategie possibili per arginare e superare la sua marginalizzazione. È una commemorazione, parola bellissima e potente, da leggere non in chiave funebre, ma con la consapevolezza che soltanto una capacità di "memoria comune" costruisca identità collettiva e pensiero condiviso. È, infine, una celebrazione delle vittorie delle donne in una "guerra" che non avrebbe neppure ragione di esistere in una società che fosse giusta, equa e fondata sul diritto naturale.

Riordino le idee e preciso ai ragazzi: l'8 marzo è una "prospettiva dedicata", un focus su un passato da non dimenticare, su un presente da analizzare nelle sue fragilità e potenzialità, ma soprattutto è una "promessa di futuro", un "pit stop" ideale, un'occasione per fare il punto della situazione, per interrogarsi su quali siano i passaggi mancanti alla costruzione di un mondo nel quale non sia fattore determinante, a collocarsi nella società, l'essere uomo o donna.

Di solito, poi, indago con loro sull'origine dell'istituzione della "giornata internazionale della donna", ma la ricerca si riduce davvero ad un primo e brevissimo passaggio. Guardare al passato è importante, osservare il presente, prendendo da esso una temporanea distanza, è indispensabile. È, infatti, alle nostre giovanissime e ai loro coetanei che dobbiamo chiedere cosa significhi "essere donna". È la loro percezione della realtà che deve interessarci, anche a rischio che essa ci turbi o non ci piaccia. Così, sebbene a scuola, per avviare il dialogo va cercato un terreno "altro" rispetto a quello consueto alla didattica. Io, come sempre, cerco conforto nella musica, che, insieme alla letteratura, costituisce il mio "bagaglio lessicale" privilegiato.

Mi sono venute in mente molte canzoni sulle donne in questi giorni, bellissime alcune, ma quasi tutte scritte da uomini, secondo il loro punto di vista e comunque troppo lontane dal tempo dei miei studenti. Nel 1988, Enrico Ruggeri ha scritto quella che per molte è stata un vero e proprio inno "Quello che le donne non dicono", regalandola alla voce di Fiorella Mannoia. Ho ascoltato per anni quelle note e quelle parole. Le ho anche cantate un tempo, io stessa. Oggi non lo farei più, adesso che le comprendo e con forza le respingo. "E se ci trasformiamo un po' / È per la voglia di piacere a chi c'è già o potrà arrivare a stare con noi“ recita il testo, sdoganando un'idea di donna che debba modificare se stessa per essere accettata in un universo esclusivamente costruito secondo parametri maschili e che lo faccia con naturalezza, per propensione.

Ma è davvero tanto lontano questo tempo da quello delle mie ragazze? Sono trascorsi poco più di trent'anni, e nel 2019, una diciassettenne Madame, nella canzone "17" scrive, canta e denuncia, con sguardo questa volta esclusivamente femminile, la fatica di essere donna. Ha pochi anni in più delle mie allieve e dice "Ehi, lover / Ma serve liberarsi dalle gonne / Perché la musica rap piaccia agli uomini / Non basta la voce, la penna, lo stile / Il cuore in gola alla fine / Forse no". In un mondo maschile e purtroppo talvolta maschilista, come quello del rap, la giovanissima cantautrice denuncia la resistenza ad accettare il valore della sua "penna" a fronte della mancanza di assertività nello "sfilarsi la gonna". Canta di una società in cui talvolta sono le stesse donne a "mettersi in vetrina" e con la cantilena tipica del rap urla a gran voce, in un altro verso, che spesso "le vetrine social sono le vetrine di Amsterdam", con un caustico riferimento ad un fenomeno relativo alla prostituzione nella nota città dei Paesi Bassi. Gli spunti di riflessione sono molteplici e il tema è delicatissimo.

 Tra poco sarò in classe e quest'anno avvierò il dialogo proprio a partire dal confronto tra queste due canzoni. Ci ragionerò su con i ragazzi, non so ancora con quali esiti, mentre sono intenta a scrivere queste parole. Vorrei soltanto che, nel separarci, nella testa delle mie ragazze rimbombasse la loro stessa voce che dice "Rivendico la mia forza e la mia fragilità, rivendico il desiderio di maternità e la possibilità di rifiutarlo. Rivendico la libertà di studiare e lavorare. Rivendico un giusto compenso per i miei sforzi professionali. Rivendico l'inviolabilità del mio corpo in qualunque circostanza, luogo, con qualunque abbigliamento. Rivendico la mia libertà sessuale. Rivendico la piena espressione della mia identità, al di là e al di sopra del mio essere donna." Vorrei che di contro i miei ragazzi ripetessero tra sé: "Mi impegno affinché le donne possano… " ribadendo a mente tutte le rivendicazioni delle loro compagne.
Quanto a me, mi auguro che un giorno, non troppo lontano, le mie figlie, le mie alunne, da donne, non debbano rivendicare ancora diritti, ma semplicemente goderne.

 

 

· Enzo Ganci · Editoriali

MONREALE, 15 settembre – Presentiamo oggi la nuova veste grafica di Monreale News, il nostro quotidiano, al quale diamo un nuovo look, un nuovo aspetto.

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