Rocco Chinnici, 38 anni fa l’assassinio del magistrato a Palermo

Era il 29 luglio del 1983 quando Cosa Nostra fece esplodere un’auto imbottita di tritolo fuori dal palazzo in cui il giudice abitava

PALERMO, 29 luglio – La recente scomparsa del giudice Alfonso Giordano, presidente della Corte durante il Maxiprocesso alla mafia, ha contribuito a far tornare alla memoria l’importanza e non pochi aneddoti riguardanti il colpo, senza precedenti, inferto a Cosa Nostra dalla legge italiana.

Del gruppo di lavoro (il “pool antimafia”) che diede vita allo storico dibattimento giudiziario, durato quasi due anni, di cui facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, era a capo il magistrato Rocco Chinnici. Capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Chinnici aveva istituito il pool nel 1980, dopo gli attentati mafiosi che, rispettivamente il 25 settembre 1979, il 4 maggio 1980 e il 6 agosto dello stesso anno avevano ucciso il magistrato Cesare Terranova, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il giudice Gaetano Costa.

Nato a Misilmeri il 19 gennaio 1925, Rocco Chinnici aveva conseguito il diploma di maturità classica nel 1943, presso il liceo classico Umberto I di Palermo. Alla laurea in giurisprudenza ottenuta nel 1947, era seguito l’ingresso in magistratura nel 1952. Dopo vari incarichi a Trapani e provincia, nel 1966 arrivò la nomina a giudice istruttore presso l’Ufficio Istruzione del foro di Palermo; negli anni a seguire la mafia palermitana e in particolare quella corleonese cominciarono a ricorrere alla violenza in maniera eclatante, dopo lunghi periodi trascorsi in “anonimato”. È il 10 dicembre 1969, presso l’ufficio dei costruttori edili Moncada, che il gruppo di Luciano Liggio spara colpi a raffica uccidendo anche il boss Michele Cavataio: si tratta della strage di viale Lazio, che coinvolse nelle indagini, oltre allo stesso Chinnici, i poliziotti Boris Giuliano e Angelo Mangano nonché il procuratore Pietro Scaglione.

Attentissimo alle dinamiche dei grandi affari della mafia, primo fra tutti quello della droga, Chinnici aveva profondamente a cuore la coscienza e il futuro dei giovani. Convinto che la rivoluzione culturale contro Cosa Nostra dovesse partire proprio da loro, era solito partecipare a incontri e conferenze nelle scuole, dove si rivolgeva direttamente agli studenti spiegando loro gli effetti devastanti derivanti dall’uso di stupefacenti e gli immensi guadagni che la criminalità organizzata otteneva grazie al commercio di essi. Come ricordò anche Paolo Borsellino, la sensibilizzazione delle nuove generazioni era una tematica di prim’ordine per Rocco Chinnici, una parte fondamentale della sua professione di magistrato.

Ma si sa, i giovani erano e continuano a essere il bersaglio più ghiotto per la malavita: un giudice impegnato quotidianamente a smantellarla e a farla comprendere ai ragazzi era a dir poco scomodo. Così Cosa Nostra mise in atto l’ennesima strage nelle strade del capoluogo: la mattina del 29 luglio 1983, alle 8 circa, una Fiat 126 verde venne fatta esplodere davanti al palazzo in cui Rocco Chinnici abitava con la moglie, Agata Passalacqua, e i figli Caterina, Giovanni ed Elvira. Quel tratto di via Federico Pipitone venne inghiottito da un tremendo boato, dalla distruzione, dalla paura. Rocco Chinnici era stato colpito a morte, insieme ai suoi agenti di scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi, e al portinaio del condomino, Stefano Li Sacchi, in una maniera che lasciava pochi dubbi. Per la conferma in Cassazione delle condanne all’ergastolo di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Antonino Geraci e altri membri della Cupola si dovrà attendere il novembre 2003: una ricerca della verità lunga più di vent’anni, costellata di procedimenti penali e di reiterate assoluzioni per insufficienza di prove. Ma secondo alcuni collaboratori di giustizia i veri mandanti della strage furono i cugini Ignazio e Nino Salvo, esattori e uomini d’onore della famiglia mafiosa di Salemi. Un accanimento non casuale, perché Chinnici aveva svelato gli intrecciati e saldi legami tra la mafia e i settori della finanza e dell’imprenditoria: la mafia come impresa, principale alleata dei colletti bianchi.

La Fondazione Rocco Chinnici, con sede a Partanna, dove il magistrato ha lavorato come pretore dal 1954 al 1966, opera attraverso varie iniziative negli ambiti economico-finanziario, giuridico e dell’istruzione e formazione. L’eredità del giudice brutalmente assassinato 38 anni fa è più viva che mai, grazie all’impegno di chi ha compreso l’importanza della memoria per il riscatto sociale. Quel riscatto sociale che Rocco Chinnici sognava e coltivava parlando direttamente ai giovani, ma anche prestando ogni giorno servizio allo Stato. Quel riscatto sociale dalla mafia e dal suo potere distruttivo, in cui Rocco Chinnici credeva e per il quale è morto.