Nell’attentato mafioso persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque dei sei componenti della sua scorta
È il pomeriggio del 19 luglio 1992. È domenica, e il giudice Paolo Borsellino si sta recando in visita dalla madre e dalla sorella, Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, che abitano al civico 21 di via Mariano D’Amelio, a Palermo.
Come di consueto, il magistrato è accompagnato da sei agenti di scorta: si tratta di Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina e Antonio Vullo. La città di Palermo e l’Italia tutta sono ancora profondamente scosse dalla strage di Capaci, messa in atto da Cosa Nostra solo 57 giorni prima, in cui hanno perso la vita i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, nonché gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.
Borsellino ha la certezza che alcuni pezzi dello Stato abbiano trattato e stiano ancora trattando con gli esponenti di spicco della mafia siciliana: lo sapeva anche Giovanni Falcone, a cui quattro anni prima della sua uccisione era stato impedito di dirigere l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Allo stesso modo, Borsellino è informato del fatto che anche alcuni membri delle forze dell’ordine, tra cui il comandante del Raggruppamento Operativo Speciale, il generale Antonio Subranni, siano segretamente alleati di Cosa Nostra. Tali sconcertanti elementi, insieme a tantissime evidenze processuali, porteranno la Corte d’Assise di Caltanissetta a parlare della strage di via D’Amelio come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria del nostro Paese”. Le pochissime luci e le troppe ombre hanno fatto ribattezzare l’attentato mafioso del 19 luglio 1992 come vero e proprio omicidio di Stato.
Un omicidio di Stato che si avvalse dell’operato di tantissimi membri di Cosa Nostra, i cui mandanti politici restano ancora sconosciuti dopo ben quattro processi (Borsellino uno, bis, ter e quater), una vicenda giudiziaria infinita che fatica a trovare una risposta. Certo è che l’organizzazione mafiosa, anche a causa delle insolite pressioni del capo dei capi, il boss Totò Riina, si sia affrettata non poco per mettere a tacere il nemico numero uno della mafia. Quel nemico instancabile, che si era laureato a pieni voti in giurisprudenza a soli 22 anni ed era diventato magistrato l’anno successivo, nel 1963. Quel temibile nemico che aveva esercitato la professione prima a Enna, poi a Mazara del Vallo, dopo ancora a Monreale, dove aveva lavorato al fianco del capitano Emanuele Basile, per poi approdare all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo nel 1975.
Un nemico di prim’ordine per Cosa Nostra, un uomo con un grande senso delle istituzioni per il resto degli italiani. L’intensa collaborazione con Giovanni Falcone e con gli altri membri del pool antimafia, istituito dal giudice Rocco Chinnici, al quale succederà il giudice Antonino Caponnetto dopo l’attentato del 29 luglio 1983 che lo ucciderà, e composto anche da Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, porta nel 1986 all’istituzione del Maxiprocesso. Questo, alla fine del 1987, darà alla mafia un colpo senza precedenti: 19 ergastoli e 2.665 anni complessivi di reclusione per i membri di Cosa Nostra. Nel dicembre 1986 Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica a Marsala, un’apparente e voluta uscita di scena che gli permette di indagare in maniera ancora più precisa, e da vicino, sul traffico di droga che coinvolge tutta la provincia di Trapani, pullulante di famiglie mafiose di un certo calibro: una tra tutti, quella di Matteo Messina Denaro.
Dopo la strage di Capaci, architettata e portata a compimento dalla Cupola in seguito alla conferma in Cassazione degli esiti del Maxiprocesso, Paolo Borsellino non fa che ripetere “adesso tocca a me”. Rifiuta categoricamente di scendere a compromessi con l’organizzazione mafiosa, che mostra grande interesse per la “mediazione” tramite l’ex sindaco di Palermo nonché esponente della Democrazia Cristiana, Vito Ciancimino, e alcuni membri dei ROS, tra cui Mario Mori e Giuseppe De Donno. Borsellino è giunto alla scoperta di verità inimmaginabili, è a un passo dal mettere insieme tutti i pezzi che compongono la trattativa Stato-mafia (ormai accertata a livello giudiziario), quando alle 16.59 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode di fronte casa della madre. Un’altra strage, un altro colpo inferto a quella parte di Stato che esige di saperne di più sulle maglie nere che governano la nazione insieme ai criminali.
È la testimonianza di Antonio Vullo, unico agente di scorta presente rimasto in vita, a darci un’idea di ciò che significò quell’attentato, in quel momento, in quel modo. Pezzi di corpi saltati ovunque, file di automobili carbonizzate, palazzi danneggiati. Tra le vittime anche Emanuela Loi, ventiquattrenne originaria della Sardegna, la prima agente di Polizia donna a cadere in servizio. Borsellino lascia moglie, Agnese Piraino Leto, e tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Ma la sua morte lascerà anche un enorme vuoto oscuro e indecifrabile, come dopo una supernova, perché innumerevoli e purtroppo efficaci saranno i tentativi di depistaggio.
Saranno le dichiarazioni rese a partire dal 2008 da Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia ed ex sicario della famiglia mafiosa di Brancaccio, a far crollare a poco a poco l’insormontabile castello di menzogne. Questo, costruito con le dichiarazioni di personaggi quasi o del tutto estranei ai fatti, come il falso pentito Vincenzo Scarantino, renderà la strada per la verità profondamente tortuosa e invalicabile. Oltre a condanne all’ergastolo per vari membri di Cosa Nostra, i procedimenti penali seguiti alla strage di via d’Amelio condurranno nel registro degli indagati anche uomini politici come Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. La Sicilia e l’Italia, dopo 29 anni, sono ancora in attesa di conoscere il reale svolgimento degli eventi pluriomicidi i cui responsabili rimangono tuttora “a volto coperto”.
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