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I pupi raccontano: la memoria come patrimonio orale dell’uomo, u cuntu e l’opera dei pupi

| Benedetto Rossi | Ci ricordiamo di loro

Opranti, teatrinari e cuntisti, il teatro dei pupi di Francesco Sclafani e la funzione affabulatoria di Peppino Celano

MONREALE, 6 agosto – Dalla consultazione di un qualsiasi vocabolario o manuale apprendiamo che, il concetto di memoria è riconducibile alla capacità della mente di conservare e richiamare alla coscienza, informazioni, immagini, sensazioni o nozioni, nel tempo e nello spazio sottoforma di ricordi, apprese durante l’esperienza.

In ambito sociologico la memoria, sia essa autobiografica, individuale o collettiva è il risultato di un tentativo di fermarsi e guardare indietro, fare memoria appunto, del proprio vissuto, delle esperienze. Ai fini della nostra disamina, quello che ci interessa indagare è la memoria collettiva, cioè quell’insieme di ricordi condivisi da un gruppo sociale circa gli avvenimenti del proprio passato su cui si fonda l’identità del gruppo stesso. Oggi si parla di dimensione collettiva della memoria quale patrimonio di ricordi di un passato vissuto come storia comune in cui riconoscersi e identificarsi.

L’Unesco nel suo programma Memory of the World fondato nel 1992 volto a censire e salvaguardare il patrimonio documentario, e successivamente il patrimonio orale e immateriale dell’umanità con l’istituzione di altri organi internazionali, avvertiva la necessità di correre ai ripari dai rischi connessi alla cosiddetta amnesia collettiva, in un costante aggiornamento di registri di varia natura. Senza la memoria del proprio passato, un popolo non può vivere il proprio presente e non può affrontare il futuro, dimenticare il passato significa perdere parte della propria identità, della propria esperienza.

Nel tentativo di recuperare e condividere le esperienze che hanno toccato anche il nostro ambiente, proponiamo ai lettori due personalità oggetto della presente trattazione, cioè l’oprante Francesco Sclafani e il cuntista e puparo Giuseppe Celano, entrambi palermitani conosciuti negli ambienti dei pupari e inseriti in alcune pubblicazioni che trattano di pupi, opranti e cuntisti o contastorie.

Il commendatore Ciccio Sclafani, così era chiamato nell’ambiente dei maestri pupari della provincia, nacque nel 1911, cominciò ad apprendere l’arte di oprante fin da bambino da Don Achille Greco considerato uno dei maggiori artisti dell’opra, prima in Piazza San Cosimo e successivamente in via Divisi alla Fieravecchia.

Nel 1930 la famiglia di Don Achille Greco - scrive lo studioso Antonio Pasqualino - fece il grande salto e fu scritturata da un impresario di Roma, per una serie di recite nel teatro Quattro Fontane e, poi aprì un teatrino nella capitale in via XX Settembre.   Il teatro di via Divisi fu rilevato da Sclafani, che già da due anni lavorava in proprio a Piazza Sant’Anna.

Sono gli anni dell’avvento del cinematografo e il teatro dei pupi subisce la prima crisi, pur restando l’intrattenimento preferito del pubblico della Sicilia occidentale con la presenza di numerosi teatrini nella città di Palermo e nelle altre città. Nel 1931 fu indetta una gara regionale tra opranti, circa venti vi parteciparono e il primo premio fu assegnato a Sclafani, apprezzato per la sua maestria nel muovere e dar voce ai paladini, il secondo premio fu dato a Giunta, in società con don Carmelo Di Girolamo noto costruttore di pupi e, il terzo premio fu aggiudicato a Cecè Argento, altro famoso puparo del tempo.

Nel dopoguerra gli opranti continuavano a svolgere la loro attività con discreti guadagni e mantennero attivi i loro teatrini sia a Palermo che nei dintorni ma, un’altra crisi più grave avrebbe messo a dura prova il teatro dei pupi in Sicilia e in tutto il meridione. L’avvento della televisione nel 1958 segnò una vera Roncisvalle per il teatro dei pupi e per i pupari che, furono costretti a vendere i pupi e i teatrini e a cambiare mestiere.

Solo la tenacia e la passione di poche famiglie, quali Sclafani, Cuticchio, Mancuso e Argento, riuscì a tenere viva la nostra tradizione con spettacoli dell’opera dei pupi.  Occorreva adeguarsi ai tempi e modificare la durata delle rappresentazioni e riadattare i codici rivolgendosi ad un pubblico nuovo, diverso rispetto al passato, turisti, scolaresche, appassionati, uomini di cultura si avvicinarono al teatro con una curiosità e uno spirito nuovo.

Sclafani ebbe l’intuizione di adeguare il repertorio delle storie cavalleresche che, ricordiamo avevano la durata di circa un anno, in cicli brevi o semplicemente di una sola sera, oggi chiamate serate speciali, per gli spettatori occasionali, dandosi “al turismo” per riportare un sua efficace espressione, narrata sempre da Antonio Pasqualino. Sclafani ebbe il merito di circondarsi di molti pupari, manianti e costruttori di pupi, tra questi anche mio padre Enzo Rossi che realizzò moltissimi pupi per il suo teatrino e vi partecipò come aiutante negli spettacoli.

Una collaborazione che, nel tempo si trasformò in amicizia e per la frequentazione di Sclafani a Monreale e per la passione che li accumunava, tanto da essere invitato nelle ricorrenze della mia famiglia e ritratto nelle foto con i miei familiari.  La sua attività fu caratterizzata da numerose tournée in Italia e all’estero e dall’acquisto di pupi dei più valenti costruttori dell’epoca, ma anche interi teatrini che rivendeva ad antiquari e appassionati. C’è un episodio che merita di essere ricordato e che ci consente di capire il livello di importanza dell’oprante Francesco Sclafani, dei suoi rapporti con enti di grande prestigio come la Rai cui fu ospite con i suoi pupi, accompagnato dal cantastorie Otello Profazio.

Il teatrino dei pupi di Francesco Sclafani, in via Matteo Bonelli al civico 32 fu oggetto di visita di un noto personaggio della musica italiana, il grande Domenico Modugno. Era l’anno 1958 e Modugno reduce dal successo di Sanremo con la sua “Nel blu dipinto di blu” visitò il teatrino dei pupi del commendatore Sclafani, acquistando alcuni paladini e scene dipinte che, raccontava il suo biografo Domenico Carta, da cui ho tratto questa cronaca ha sempre portato con se nelle sue varie abitazioni.

Il motivo della sua visita in Sicilia e segnatamente al teatro dei pupi di Palermo è da attribuire, riferisce sempre il suo biografo, all’amore di Modugno verso il mondo dei contadini e dei pescatori e per la somiglianza del dialetto del suo paese, San Pietro Vernotico in provincia di Brindisi, al nostro dialetto siciliano e, perché durante una trasmissione radiofonica “Radioclub” del maggio 1953 in onore di Frank Sinatra, fu presentato come siciliano per le sue ballate e poesie in musica che narravano le tristi condizioni degli zolfatari di Girgenti, dei lavoratori delle saline, cantate alla maniera dei cantastorie.Racconta Modugno in una sua autobiografia che, volle visitare la Sicilia in segno di riconoscimento verso una terra che tanto successo gli aveva tributato. Francesco Sclafani grande appassionato dell’opera dei pupi cui dedicò l’intera esistenza, scomparve nel 1991 lasciando un patrimonio culturale che merita di essere apprezzato e approfondito, quale eredità da trasmettere alle future generazioni.       

Se Sclafani è stato un imprenditore che ha percepito l’evoluzione e la grande portata del fenomeno, adattando gli spettacoli dell’opra al nuovo pubblico cui abbiamo fatto riferimento, promuovendo e divulgando questa nostra tradizione fuori i confini italiani, Peppino Celano è da considerare il cuntista che ancorato alla tradizione ha saputo tramandare la propria arte.

Peppino Celano puparo e contastorie, nacque nel 1903, terzo di tredici figli frequentò il teatrino dei pupi di Francesco Russo. Egli non era figlio d’arte ma, ha imparato il cuntu ascoltando i vari cuntisti o contastorie che, numerosi si esibivano nelle piazze di Palermo, come Rosario Genovese a Villa Bonanno,Totò Palermo e Paolo Puglisi per citarne alcuni.

Da giovane aveva iniziato nel teatro di Franco Zappalà, interpretando piccole parti, veniva chiamato per la sua capacità di maneggiare il coltello che, usava abilmente sulla scena come fosse una spada. Richiamato alle armi allietava i commilitoni con i racconti dei paladini. Ai suoi tempi il mestiere o si tramandava da padre in figlio, da maestro ad allievo o si rubava e, ascoltando per due ore, giorno dopo giorno e, per un periodo abbastanza lungo, u cuntu delle storie cavalleresche, il Celano divenne il più famoso tra i contastorie di Palermo.

Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale impiantò un teatrino nel rione San Pietro e in seguito in vicolo Pilicelli al Capo, nel vicino piazzale chiamato “u chianu i l’arbiru” cuntava le storie di Orlando e Rinaldo. La caratteristica principale di Peppino Celano è la capacità di creare l’atmosfera magica affinché lo spettatore si immedesimi e si estranei dalla realtà. U cuntu si colloca a metà strada tra l’opra e le storie dei paladini pubblicate a dispense, una sorta di mini racconto mimato molto vicino al repertorio dei giullari.

I contastorie hanno attinto dalla tradizione orale, antichissima in Sicilia sin dal secolo XV. Diversamente dal cantastorie che si serve del cartellone figurato per raccontare le vicende, il cuntista deve provvedere con il suo corpo mimico ed espressivo, con la gestualità, il timbro della voce e con la creatività narrativa, battendo il piede su un tavolato scandisce i ritmi e le sequenze. Cuntista e spettatore dovevano conoscere gli stessi codici sia sonori, mimici e verbali; tra il contastorie e il suo pubblico si doveva creare un contatto, un percorso che si snodava tra boschi incantati e nel fragore delle battaglie, muovendosi energicamente e con espressioni colorite con l’estro e la fantasia delle invenzioni, lo attraeva e lo ammaliava. Sul più bello della storia Celano chiudeva il cuntu con la tipica frase: "e ora, signuri mei, ddocu a lassamu e 'natra vota arripigghiamu", in modo che lo spettatore tornasse il pomeriggio successivo.

Con la sua spada in mano che volteggiava con grande maestria incantando centinaia di anziani e bambini, ha avuto in Mimmo Cuticchio un allievo che lo ha seguito per tanto tempo, diventando l’anello di congiunzione tra il passato e il presente a cui si deve la trasmissione di un repertorio orale, patrimonio immateriale dell’umanità.Negli anni sessanta eseguì spettacoli nel teatrino in vicolo Scippateste con Francesco Sclafani.

Quando la televisione prese il sopravvento e la gente non si riunì più nelle pazze per il consueto cuntu, don Peppino da cuntista esperto divenne puparo, cominciò a costruire ossature di legno e pupi e a fare spettacoli nel teatro di Giacomo Cuticchio, padre del più conosciuto Mimmo e, dopo si mise in società con Francesco Sclafani.

Il suo laboratorio in vicolo Pilicelli, dove mio padre imparò la costruzione delle ossature, era un luogo frequentato dai più valenti opranti del tempo, per commissionargli i pupi per il teatro. Egli veniva spesso a Monreale a trovare mio padre, con il quale intratteneva rapporti di lavoro e la sua presenza non passava inosservata, perché quando arrivava in via Duca degli Abruzzi dove abitava la mia famiglia, gridava a gran voce il suo nome facendosi notare, come fosse sulla scena. Un tragico incidente avvenuto nel 1973 lo tolse agli affetti e al mondo dell’opera dei pupi, ma il ricordo e la testimonianza della sua opera è rimasta sempre viva nella memoria collettiva.

Nel 2014 a oltre quarant’anni dalla scomparsa, una targa posta nelle vicinanze della sua abitazione in vicolo Pilicelli, su cui è riportata la seguente frase: «In questo vicolo visse e operò Don Peppino Celano 1903-1973 eccelso artista, cuntista e puparo. Sensibile cantore del lavoro, della cultura e degli ideali siciliani» ne ricorda alla comunità e ai posteri la sua arte, allo scopo di conservare e trasmette un grande patrimonio collettivo su cui continuare ad identificarsi. 

 

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