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Maxiprocesso, quando Tommaso Buscetta fece la sua comparsa all’aula bunker

| Giorgia Garda | Cultura

Era il 3 aprile 1986, e da allora la consapevolezza del fenomeno mafioso si è accresciuta sempre di più

MONREALE, 3 aprile – Prima del “boss dei due mondi” erano stati almeno due i collaboratori di giustizia divenuti celebri per le importanti dichiarazioni sulla mafia e le esplicite accuse mosse contro certi illustri criminali: Melchiorre Allegra e Leonardo Vitale, se si esclude il caso di Serafina Battaglia.

Melchiorre Allegra, “uomo d’onore” e medico di Castelvetrano (un motivo ricorrente nella mafia siciliana, quello della professione medica esercitata insieme all’attività criminale), aveva svelato i primi segreti di Cosa Nostra e puntato il dito contro i sodali dell’organizzazione già nei lontani anni Trenta. Dovranno passare circa quarant’anni prima che la stessa strada venga imboccata da Leonardo Vitale.
Quest’ultimo, appartenente alla famiglia mafiosa di Altarello di Baida, inizia a collaborare con la giustizia nel 1973, rivolgendosi all’allora capo della squadra mobile di Palermo Bruno Contrada. I giudici non daranno credito alla sua verità, divenuta processuale qualche anno dopo, e tutti coloro che aveva accusato verranno infine assolti per insufficienza di prove. Rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, verrà dimesso nel 1984 e assassinato il 2 dicembre dello stesso anno, all’esterno della chiesa dei Cappuccini, a Palermo, davanti agli occhi della madre.

Quell’anno inizia un’altra storia, diversa e simile allo stesso tempo: Tommaso Buscetta, nato a Palermo il 13 luglio 1928, componente del mandamento di Porta Nuova, viene estradato negli Stati Uniti dal Brasile, dove viveva insieme alla moglie Cristina e ai loro quattro figli, per traffico di stupefacenti. Ma lo sterminio della sua famiglia da parte dei Corleonesi, condotto con l’ausilio del suo amico di vecchia data e boss Pippo Calò, “cassiere” di Cosa Nostra, comincia ben prima. Saranno undici i suoi familiari assassinati o fatti scomparire durante la seconda guerra di mafia, tra cui due dei suoi figli, Benedetto e Antonio.

Quando il 3 aprile 1986 il legale di Buscetta, Armando Costa, annuncia la disponibilità dell’imputato a comparire davanti alla Corte d’Assise di Palermo, l’aula bunker dell’Ucciardone si riempie di brusii animati. Poche e sfocate le immagini che si hanno di lui in quell’occasione, circondato dai carabinieri, elegante ma sommesso. Pochi minuti dopo sarà Alfonso Giordano, presidente della Corte, a iniziare a parlare delle interminabili dichiarazioni rese in sede istruttoria al giudice Giovanni Falcone, nonché dei motivi che lo hanno spinto a collaborare.
Il Maxiprocesso è iniziato ormai da due mesi, ma quel giorno ne rappresenta l’avvio simbolico, il colpo di scena; è un momento cruciale, indimenticabile. Tommaso Buscetta non si sente affatto un pentito: “Rimango con lo spirito con cui sono entrato. Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo, quindi non sono un pentito”. La sua inaspettata apparizione lascia con il fiato sospeso tutti i detenuti presenti nelle gabbie, concentrati su di lui e sulle parole da lui pronunciate, che scorrono come un fiume in piena.
Buscetta prosegue con la meticolosa illustrazione dell’organizzazione di Cosa Nostra, fatta con estrema chiarezza. Non potrebbe essere altrimenti: il suo è il punto di vista di chi, per quasi quarant’anni, ha avuto un ruolo di spicco nella mafia palermitana. Poteri, doveri e contraddizioni nelle azioni della “commissione” che governa Cosa Nostra vengono spiegati e non lasciano alcun dubbio. Per la prima volta nella storia della legge italiana si prende atto di una verità inconfutabile: la mafia esiste.

 

· Enzo Ganci · Editoriali

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