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43 anni fa la strage di via Fani

| Giorgia Garda | Cultura

Il 16 marzo 1978 il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse

Sono le 8:45, e alcuni componenti delle Brigate Rosse (Mario Moretti, Barbara Balzerani, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono) si trovano all’incrocio tra via Fani e via Stresa, a Roma. A bordo, rispettivamente, di tre Fiat 128, il loro obbiettivo è quello di attuare il sequestro più eclatante e drammatico della storia della Repubblica Italiana.

Quella mattina è presente anche Bruno Seghetti, su una Fiat 132, che avrà il compito di caricare l’ostaggio a bordo non appena l’agguato sarà portato a termine. I brigatisti che apriranno direttamente il fuoco sulla scorta saranno invece Raffaele Fiore, Franco Bonisoli, Valerio Morucci e Prospero Gallinari.
Il bersaglio di quel piano architettato in maniera meticolosa e studiato a lungo è Aldo Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana e prima presidente del Consiglio dei Ministri dal 1963 al 1968 e dal 1974 al 1976, nonché ministro degli Esteri dal 1969 al 1972 e dal 1973 al 1974, ministro dell’Istruzione dal 1957 al 1959, ministro della Giustizia dal 1955 al 1957. Moro si sta recando proprio alla Camera dei deputati, nel giorno in cui il nuovo governo Andreotti aspetta di ricevere la fiducia, quando tra le 9.02 e le 9.05, in appena tre minuti, le Brigate Rosse colpiscono a morte sia Domenico Ricci e Oreste Leonardi, i carabinieri che si trovavano nell’automobile insieme a Moro, che Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, i tre agenti appartenenti alla scorta del deputato democristiano.

La rivendicazione del rapimento non tarda ad arrivare: circa un’ora dopo l’agguato, l’ANSA riceve una telefonata da parte di Valerio Morucci. Egli dichiarerà: “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse”. Gli altri messaggi non faranno altro che confermare l’opinione del gruppo di estrema sinistra: Aldo Moro è un “fedele servo degli imperialisti, che da trent’anni è a capo di un governo opprimente nei riguardi del popolo italiano”. I brigatisti mettono lo Stato italiano di fronte una scelta: o la liberazione dei loro compagni incarcerati, o la vita del segretario.

Durante la prigionia, durata 55 giorni e conclusasi con la sua uccisione, Aldo Moro scrive circa novanta lettere, indirizzate sia alla moglie che ai colleghi di partito, nonché al Papa Paolo VI. In queste, non raramente Moro esprime un profondo senso di rassegnazione nonché di abbandono da parte di tutta la politica italiana, la quale, nonostante qualche frattura (tra chi non intendeva scendere a compromessi con le Brigate Rosse, fazione di cui facevano parte la stessa DC e il Partito Comunista Italiano, e i “possibilisti”, ovvero radicali, cattolici progressisti e la sinistra non comunista, tra cui Bettino Craxi, che avrebbero invece cercato un “dialogo” per salvare la vita di Moro) non accetterà mai di trattare con i rapitori.

L’ultimo comunicato delle Brigate Rosse recita così: “Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”. Il 9 maggio 1978, dopo quasi due lunghissimi mesi di prigionia, Aldo Moro viene ritrovato senza vita all’interno di una Renault 4, in via Caetani. La famiglia rifiuterà categoricamente ogni esequia pubblica, chiudendosi in un profondo dolore misto a impotenza. Saranno ben cinque i processi istituiti, oltre 20 gli ergastoli e più di 300 gli anni di carcere inflitti (pene in alcuni casi riviste e/o ridotte) ma il sequestro e il conseguente assassinio di Aldo Moro, uomo politico illustre e mai dimenticato rappresentante delle istituzioni, rimane ancora, in parte, un caso irrisolto.

 

 

· Enzo Ganci · Editoriali

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