39 anni la strage di via Isidoro Carini: un agguato di mafia o forse molto di più

Cosa Nostra eliminò il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, e all’agente di scorta Domenico Russo

MONREALE, 3 settembre – Un attentato mafioso, o forse, molto più di questo. Attorno alle ore 21 del 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini a Palermo, un’Autobianchi A112 e un’Alfetta vengono crivellate di colpi di Kalashnikov.

A bordo della macchina ci sono il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, mentre alla guida dell’Alfetta si trova un agente di scorta, Domenico Russo. I primi moriranno sul colpo; Russo dodici giorni dopo. Gli esecutori materiali della strage sono alcuni soldati della Cupola: a sparare è Giuseppe Greco, detto “Scarpuzzedda”, killer di fiducia dei Corleonesi, ma parte delle trenta pallottole proviene anche da un altro fucile AK-47, adoperato da Antonino Madonia. Complici dell’agguato sono Calogero Ganci, Giuseppe Lucchese, Raffaele Ganci, Vincenzo Galatolo, Francesco Paolo Anzelmo e Gaetano Carollo.

Carlo Alberto Dalla Chiesa era arrivato a Palermo da appena cento giorni ma già anni prima era stato a lungo in Sicilia, in prima linea nelle indagini sull’organizzazione criminale tra le più attive e pericolose al mondo: Cosa Nostra. Dopo aver avuto un ruolo di spicco nella lotta al terrorismo eversivo di sinistra, tra i protagonisti degli “anni di piombo”, Dalla Chiesa era in attesa di quei famigerati “pieni poteri” promessi dallo Stato, che gli avrebbero dato carta bianca nel perseguire legalmente la mafia dopo un’escalation di omicidi eccellenti, e che non fecero in tempo ad arrivare. E proprio tra le maglie dello Stato, ad alti livelli delle schiere politiche che governavano il nostro Paese, si sarebbe decisa la sua uccisione.

Un attentato, quello di 39 anni fa, che non avrebbe come unici mandanti Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Michele Greco, Nenè Geraci e Bernardo Brusca. Un attentato messo a segno per “fare un favore a qualcuno”, come disse nel 2001 Giuseppe Guttadauro, medico e capo del mandamento di Brancaccio, in una telefonata intrattenuta con un collega, e come sostenne anche il collaboratore di giustizia Gioacchino Pennino, puntando il dito contro Francesco Cosentino. Quest’ultimo fu esponente della corrente andreottiana della Democrazia Cristiana ed europarlamentare, ma anche membro della loggia P2.

Proprio Giulio Andreotti, grande assente alle esequie del prefetto e della moglie, tenute nella chiesa palermitana di San Domenico dal cardinale Salvatore Pappalardo, giustificò la sua mancata partecipazione ai funerali affermando che “preferiva i battesimi”. Tra i misteri riguardanti la strage di via Carini anche l’inspiegabile scomparsa di alcuni documenti appartenenti al generale, sottratti sia da una borsa che da una cassaforte. Furti compiuti meticolosamente, con tutta probabilità poco prima o nei momenti immediatamente successivi alla carneficina, che puzzano di insabbiamenti e depistaggi. È la conclusione a cui arrivano anche i giudici del Maxiprocesso. Dalla Chiesa era a conoscenza delle pericolose conseguenze che gli interessi delle logge massoniche avrebbero comportato all’interno del governo, coinvolgendo direttamente tanti personaggi politici, non solo in Sicilia; sicuramente il generale non aveva più molti dubbi in merito al rapimento Moro nonché all’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, avvenimenti tra i più bui della storia della Repubblica. “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti” recitava un cartello posto sul luogo dell’eccidio all’indomani dei fatti delittuosi. Poche parole, più eloquenti di un intero poema.

Una legge tra tutte porta su di sé, tra i tanti, i pesanti sacrifici di Carlo Alberto Dalla Chiesa, della consorte Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo: si tratta della legge 646, anche nota come “Rognoni-La Torre” dal nome dei suoi primi firmatari. Una legge che rappresenta tuttora il caposaldo del contrasto alla criminalità organizzata e che introdusse per la prima volta il reato di associazione mafiosa nel codice penale italiano, oltre a prevedere il sequestro dei beni economici e materiali tratti da attività illecite. Fu approvata dieci giorni dopo l’attentato di via Carini, e da essa si costituirono le fondamenta del Maxiprocesso. Ricordare vicende tanto dolorose, dalla violenza inaudita, che per anni sono suonate come un tragico ritornello, si rende necessario affinché possiamo condurre una cittadinanza consapevole, fatta di diritti da esercitare e da difendere.