Mafia, 44 anni fa Cosa Nostra uccideva Peppino Impastato

Instancabili le sue lotte contro il potere mafioso, memorabili le trasmissioni satiriche della sua "Radio Aut". Era il 9 maggio 1978

PALERMO, 9 maggio - L’ironia è un’arma potentissima, più di qualunque pistola o fucile carichi e pronti all’uso. Saper ironizzare, saper ridere delle situazioni, anche delle più complesse, ci rende invincibili.

E l’ironia può essere anche un valido strumento per polemizzare, dissentire, ribellarsi a qualcosa che non ci piace o non va bene così com’è, per noi, per la nostra comunità, per la società, per le generazioni presenti e future. E che dire di quelle persone che sono state in grado di prendersi gioco di mali pieni di tentacoli, pervasivi, assoluti, come la mafia?
Peppino Impastato era il tipico “personaggio scomodo” perché si faceva beffe di soggetti pericolosi, inclini al delitto e alla criminalità, membri di Cosa Nostra. Uno tra tutti, Gaetano Badalamenti, era il suo bersaglio preferito: nel corso delle trasmissioni della sua “Radio Aut”, “giornale di controinformazione radiodiffuso”, il temuto boss di Cinisi era stato ribattezzato “Tano seduto” e la stessa cittadina in cui Peppino era nato e cresciuto aveva assunto un nuovo, divertente appellativo: “Mafiopoli”.

Perché a Peppino Impastato la mafia stava stretta, e di parecchio. Nonostante le sue origini pregne di quel modus vivendi et operandi, nonostante il legame di parentela con il boss Cesare Manzella, capomafia di Cinisi fino al giorno dell’attentato che lo uccise, il 26 aprile 1963, nonostante il coinvolgimento diretto del padre Luigi in determinate dinamiche (era stato al confino per mafia durante il ventennio fascista), Peppino era un giovane idealista ma allo stesso tempo razionale e pragmatico che non aveva intenzione di arrendersi al compromesso.

La sua militanza politica nelle schiere del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria era iniziata appena dopo l’adolescenza, e in età altrettanto verde i concittadini aveva fatto il suo primo comizio. A 17 anni aveva contribuito alla fondazione del giornale “L’idea socialista” e nel 1967 era stato tra i promotori della lunga e partecipata Marcia della protesta e per la pace, un collettivo farsi corpo del contrasto alla guerra del Vietnam e ad altre questioni di grande rilevanza sociale, tra cui lo sfruttamento del lavoro e la stessa criminalità organizzata, allora predominante nella gestione e nel controllo di terre e latifondi.

Anche il profondo e nefasto legame tra politici e mafiosi venne lamentato e denunciato da tutti coloro che presero parte al corteo: un rapporto antico di quasi due secoli, che in Sicilia ha fatto tantissime vittime innocenti. L’assassinio di Peppino Impastato fu ordito in modo tale da sembrare un suicidio, in particolare il suicidio di un brigatista che aveva deciso di farsi saltare in aria sui binari della ferrovia: un depistaggio che ebbe vita lunga, contro il quale lottarono duramente il fratello di Peppino, Giovanni, e la madre, Felicia Bartolotta.

Una donna, Felicia Bartolotta, che non ebbe paura a puntare il dito contro mandanti ed esecutori dell’omicidio del figlio, compiuto 44 anni fa. Una donna che scelse di educare i figli in maniera sana, del tutto inusuale per il contesto in cui si trovavano immersi. Una donna che affrontò malelingue, omertà, indifferenza, sempre a testa alta, fino alla morte. La battaglia di Felicia Bartolotta, del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e di tanti altri portò alla condanna a trent’anni di carcere di Vito Palazzolo, uomo di fiducia dei Corleonesi, il 5 aprile 2002 nonché all’ergastolo di Gaetano Badalamenti l’11 aprile dello stesso anno, dopo una tortuosissima vicenda processuale e plurime archiviazioni del caso. Chissà se Peppino abbia trovato la forza di ridere anche dei tanti errori e ritardi patiti nel tentativo di rendergli giustizia.