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Dopo 70 anni resiste ancora: a quando la caduta del segreto di Stato sulla morte di Salvatore Giuliano?

fumetto di Lino Buscemi

A Castelvetrano si consumò una cinica “sceneggiata”. Pezzi dello stato e mafia, per la prima volta dopo la nascita della repubblica, si accordarono per liquidare definitivamente il bandito

Il “fantasioso” assassinio del bandito Salvatore Giuliano è destinato, dopo settanta lunghi anni, a rimanere immerso, forse per sempre, nella nebbia più fitta dei cosiddetti “segreti di Stato”.

 

A livello istituzionale, al di là di retoriche e formali promesse, non c’è mai stata e non c’è la volontà di fare chiarezza per far trionfare verità e giustizia, malgrado siano passati ben quattro anni dal fatidico 2016, anno in cui, per legge, dovevano essere aperti “tutti i cassetti”. Nell’opinione pubblica è ben diffusa la convinzione, dato il tempo trascorso, che i responsabili -mandanti, esecutori, “menti” politiche, ecc.- della sceneggiata ordita il 5 luglio 1950 a Castelvetrano ( all’interno del cortile Mannone è stato trovato il corpo martoriato del bandito) ormai l’hanno fatta tutti franca perché passati a miglior vita. Nondimeno non si può accettare la sciatteria di quanti nulla fanno per favorire la ricerca documentale o per agevolare gli studi storici.

Chi era Salvatore Giuliano ? Un bandito che, insieme ai suoi picciotti, per sette anni (1943-1950), con cinismo e ferocia, ha commesso una serie di raccapriccianti crimini e violenze quasi tutti concentrati nella provincia di Palermo. Giuliano commise il suo primo omicidio a 21 anni, il 2 settembre 1943 quando, a colpi di pistola, vicino alla sua Montelepre, soppresse il giovane carabiniere Antonio Mancino. A dispetto di quanto sostenevano non pochi suoi contemporanei estimatori, Turiddu non era affatto un redivivo Robin Hood che “toglieva ai ricchi e dava ai poveri”. Egli si rese responsabile di 306 omicidi ( di cui almeno cento fra le forze dell’ordine), 178 tentati omicidi, 11 stragi, 37 sequestri di persona, 37 estorsioni e rapine, 86 conflitti a fuoco. I governi di allora decisero di porre su di lui almeno tre taglie. La prima risalente al febbraio del 1946 era pari a lire 800 mila (Giuliano si offese e come risposta mise una contro taglia di 2 milioni sul ministro dell’Interno Romita). L’ultima, datata novembre 1949 , risultò più allettante : 50 milioni di lire per avere da chiunque “….esatte notizie che portino alla cattura del bandito…”. Pare che la cifra ebbe un qualche peso nella “scelta”, auspice la mafia monrealese, compiuta dal latitante Gaspare Pisciotta, numero due della banda, di dissociarsi per favorire la cattura di Turiddu Giuliano.
Tra taglie più o meno cospicue, disattenzioni e sottovalutazioni governative, continui ricambi o dimissioni all’Ispettorato generale di P.S. preposto alla repressione del banditismo e diretto per anni da alcuni questori (Ettore Messana e Ciro Verdiani) assai chiacchierati per la loro spericolata carriera e per gli indicibili servizi resi al fascismo , ad un certo punto si ebbe la sensazione della quasi intoccabilità di Giuliano, il quale non disdegnava di essere corteggiato e “strumentalizzato” da politici in “odor di mafia” o finti antimafiosi.

Addirittura un esponente catanese del separatismo lo contattò per proporgli la nomina a colonnello del claudicante Evis ( esercito volontario per l’indipendenza siciliana). Dopo le elezioni politiche del 1948 e la orrenda strage di Bellolampo del 19 agosto 1949, l’atteggiamento del governo ( ministro dell’Interno il siciliano Mario Scelba) mutò notevolmente. Anche le opposizioni si fecero più incalzanti. Cosicchè , anche in risposta ad una sempre più allarmata opinione pubblica, venne costituito il CFRB (comando forze repressione banditismo in Sicilia) affidato al colonnello dei carabinieri Ugo Luca, di origini venete con un passato poco glorioso nei servizi segreti fascisti e morti sospette nella sua lunga carriera militare (cfr. Conti “ Gli uomini di Mussolini”, ed. Einaudi, pagg.107-115). A Luca furono dati mezzi e apparati adeguati, soldi, uomini e tutto ciò che era stato negato ai suoi predecessori dell’Ispettorato. Tuttavia Giuliano, da vera primula rossa, continuò ancora per molti mesi ad imperversare nei suoi territori prendendosi beffa del colonnello e del suo Crfb. Lo Stato dimostrava tutti i suoi limiti nell’archiviare per sempre la “pratica Giuliano” . Sulla stampa, negli ambienti di lavoro, nei circoli di tutto il Paese non si parlava d’altro. Probabilmente forte delle sue oscure esperienze nel Sim di Mussolini, il col. Luca , benchè dotato di mezzi e poteri, cambiò strategia e non disdegnò di aprire canali di ” dialogo”, se non di collaborazione, con i capi mafia di Monreale (famiglia Miceli) , di San Giuseppe Jato ( Minasola) e di altri importanti centri per fare terra bruciata intorno a Giuliano che, a quanto pare, anche negli ambienti della onorata società cominciava ad essere considerato un peso. Non è dato sapere che tipo di promesse o concessioni furono fatte ai mafiosi. Comunque sia, la prima trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia , nell’era repubblicana, ebbe inizio e produsse non pochi frutti. Furono consegnati alle forze dell’ordine, ad uno ad uno, quasi tutti i componenti della banda. Poi venne pianificato il “tradimento” di Gaspare Pisciotta ( anche con l’indegno doppio gioco dell’Ispettore Verdiani ) e, infine, il grottesco epilogo di Castelvetrano.

All’alba del 5 luglio 1950, il cadavere di Giuliano , crivellato di colpi nella notte appena trascorsa, dopo accurata preparazione, fu mostrato ai giornalisti, fotografi e curiosi. La prima versione ufficiale costruita a tamburo battente per la stampa fu che Turiddu cadde nel “corso di un conflitto a fuoco” con una squadriglia di carabinieri diretti dal capitano Antonio Perenze. Versione costruita ad arte, falsa e contradditoria, avallata senza tentennamenti dal col. Luca che se ne attribuì tutto il merito. Naturalmente il governo, soddisfatto per l’eccellente risultato, diffuse quel tipo di versione e la difese in Parlamento e fuori, considerandola l’unica verità. Poi, a caldo, promosse Ugo Luca generale di Brigata per i servizi resi al Paese. La mafia, ovviamente, aveva fatto la sua parte a anch’essa si era liberata di un “fastidioso ingombro”. Qual è stato il “prezzo” della determinante “collaborazione”? Passata l’euforia, cominciarono a insinuarsi dubbi e perplessità. Dopo 70 anni nessuno li ha ancora dipanati, né si intravvedono all’orizzonte segnali rassicuranti.
Nei primi decenni si questo secolo ad iniziativa di storici, ricercatori e studiosi, sono emerse altre fondate verità come quella rivelata da questo giornale ( vedi articolo, a firma di chi scrive, “ Nuove verità sulla morte di Giuliano: stordito e ucciso ma non da Pisciotta”), che stravolgono quella veicolata, con disprezzo della logica e dell’intelligenza, dal col. Luca e del suo referente il ministro Mario Scelba. Intanto i “ segreti” ( di Stato ?) resistono all’usura del tempo con buona pace della tanto osannata trasparenza che dovrebbe caratterizzare l’agire dello Stato democratico in tutte le sue articolazioni.