Bettina e la capra di Rapocchio

Torniamo indietro al 1959 con una simpatica storiella

Don Peppino Miceli era stato ribattezzato con il nomignolo di Crapuzza da mio nonno Totò, storico ardito bersagliere della sciagurata guerra del 1915-18. Don Peppino era uno dei contadini più legati al mio nonno paterno, insieme a Nino Pernice, Pinè ed i fratelli Culedda.

Don Peppino era l’operaio prediletto perché adorava infinitamente le tenerissime caprette. Mio padre Gianni non digerì mai quest’empatia affettiva, calcolata da mio nonno a tavolino. Crapuzza era un uomo povero e semplice; era sposato con una donna popolana altrettanto semplice ed umilissima. Aveva procreato una ragazza con seri disturbi nell’ambito fonatorio; in quei tempi lontani, una ragazza veniva etichettata come mutanghera, ma nell’assemblaggio dei miei ricordi, era una ragazza che comunicava a 360° i suoi pensieri, facendosi capire alla perfezione. Don Peppino aveva una dolcissima capretta di nome Bettina; era l’alternativa alla sua povertà ed ai momenti di magra, quando imperava la carestia totale e l’assoluta mancanza di cibo. Bettina produceva almeno due litri di latte nella sua quotidianità; le bastava cibarsi d’erba fresca, foglie e leccornie varie, che racimolava nella campagna di nonno Totò. Accadde che nel 1959, la dolcissima capretta Bettina si trovò in compagnia del mio bersagliere e successe il finimondo; Crapuzza, il suo affezionatissimo padrone, era impegnato nella raccolta delle olive nel fondo agricolo di mio nonno che, nelle more di preparare l’insalata quotidiana agli operai, aveva intercettato un maldestro tentativo di rapina nel suo domicilio di campagna. Apriti cielo!

Mio nonno si precipitò come una furia nel luogo del delitto ed impugnò il suo fedelissimo fucile e la cartucciera di servizio, zeppa di pallottole di piombo al titanio. Bettina lo seguiva a ruota e dovette assistere al duello burrascoso tra mio nonno ed il malfattore che stava tentando indisturbato di rubare le galline del pollaio di mia nonna Giovanna. Scoppiò un conflitto a fuoco; il malfattore e ladro di polli era armato e sparò per primo contro la sagoma anatomica di mio nonno. Bettina, segno del destino, sollevò la sua testa per fare da scudo al proiettile vagante del ladrone; fu colpita al corno sinistro della sua matta testolina e stramazzò al suolo. Mio nonno, vedendo la capretta stramazzare al suolo, impazzì e cominciò a sparare a ripetizione contro il malfattore; lo colpì per 12 volte nel sedere, a ripetizione nella spalla sinistra e nelle gambe. Nonno Totò aveva un’ottima mira; non voleva macchiarsi di un omicidio inutile per un tentativo maldestro di un furto di galline. Per fortuna e sommo intervento della moira del destino, dopo un quarto d’ora ritornò la quiete dopo la tempesta. La capretta Bettina si rialzò ed anche se ferita annusò mio nonno in senso di gratitudine. Gli operai che aspettavano la pausa pranzo, in seguito agli spari si precipitarono tutti quanti a solidarizzare e prestare soccorso.

Don Peppino, rincuorato, abbracciò la sua fedele capretta e la baciò sull’unico corno sopravvissuto, per almeno mezz’ora. Mio padre pronunciò l’estrema sentenza:. Non mi vendicherò perché lo faranno fuori gli stessi malfattori della sua specie; quando lo incontrerò a Monreale, guardandolo severamente negli occhi, gli ricorderò il bruciore nel sedere provocato dai pallettoni di mio padre. Quanto alla capretta Bettina di don Peppino, vorrei ribattezzarla con un nuovo nomignolo, ovvero, Unicorno. Questo nomignolo reale, me lo ha suggerito mio figlio Salvino: “futuro poeta, scrittore e musicista”. La tumultuosa giornata si concluse a tarda sera, dopo una solenne abbuffata di sfincione ed alette di pollo, preparate alla griglia da Nino Pernice. Fiumi di vino d’annata, devastarono la sobrietà di tutti gli operai invitati alla grande abbuffata. Pinè tartagliava parole confuse, senza senso, da catalogare nel vocabolario della vecchia accademia della crusca; Nino Pernice emetteva peti puzzolenti e li dedicava ai convitati con dedica in rima: “Questo peto rumoroso e sopraffino, lo dedico a don Peppino e tuonava come Giove nell’olimpo degli dei pagani; questo peto puzzolento, lo dedico a Don Totò proprietario del bastimento; questo peto silenzioso e muto, lo dedico a Titta Caputo>. Mio padre di rimando:

A questo punto della baldoria e del caos generale, intervenni in prima persona sbuffando: “Allegra comitiva di lavoratori, siete maledettamente sbronzi e senza prospettive. Barcollate scioccamente come canne al vento e non potete fare ritorno alle vostre case. Rassegnatevi a dormire nel pollaio!”. Mio nonno di rimando: “Fatti i santi cavoli tuoi, nipote ribelle e lingua lunga, parla solo quando il gallo fa chicchirichì”. Mi ricordo che, a questo punto del film, mio padre s’incavolò seriamente con mio nonno, sbuffando: “Sei un padre padrone! Scendo di corsa nella stalla, prendo il calesse e la giumenta e ti lascio con gli operai senza pentimenti. Seguimi, figlio mio, non possiamo più restare in compagnia di questa manica di esaltati”. Don Peppino Miceli pregò mio padre di ospitarlo nel viaggio di ritorno a Monreale in compagnia della sua amata Bettina. Mio padre fu felice di ospitarlo e di gran corsa ci avviammo alla cittadina normanna. Da quel giorno ebbe inizio una guerra fredda tra mio padre e mio nonno. S’ignorarono per sei lunghi mesi, fino a quando l’oblio prosciugò la contesa familiare.

DAL LIBRO PARAMUTIA 2017 BY SALVINO CAPUTO _(c) Copyright e Tutti i diritti riservati ISBN E SIAE