Quell’evasione dal carcere di Monreale da cui ebbe origine la banda Giuliano
È oramai da tempo diffuso il convincimento, comprovato da indagini e testimonianze, che il primo nucleo da cui ha avuto origine la famigerata “banda Giuliano” sia stato costituito dal gruppo di otto detenuti (fra i quali Francesco Giuliano e Salvatore Lombardo, zio e cugino del bandito) che il “re di Montelepre” riuscì a far evadere nel 1944 dalle carceri mandamentali di Monreale.
Questa circostanza, tra l’altro, è stata confermata dalle dichiarazioni rese nel 1971 al comitato di indagine sui rapporti tra mafia e banditismo dal maresciallo Giuseppe Calandra, già comandante della stazione dei Carabinieri di Montelepre, che ha affermato: “La banda si formò con otto degli evasi dal carcere di Monreale, questo è ben noto”.
L’episodio della clamorosa fuga dalla prigione monrealese è stato narrato con dovizia di particolari dallo stesso Salvatore Giuliano in uno dei suoi diari, pubblicati agli inizi del 1961 dalla rivista settimanale «Epoca». Questo è il testo del suo raccolto, scritto in terza persona:
“… gli giungeva inatteso dal carcere di Monreale un bigliettino proprio di quel cugino che era stato preso in vece sua nella fatale notte della vigilia di Natale. Questi lo informava che non si sentiva più in grado di sopportare le sevizie della polizia ed invocava assieme ad altri sette compaesani il suo aiuto per uscire da quell’inferno. Giuliano non seppe restare indifferente a questa implorazione che veniva da gente che soffriva per lui e da quel cugino che tanto amava. Intanto un fratello di un carcerato fece pervenire ad essi delle piccole seghe con le quali, in sette giorni di paziente lavoro, riuscirono a spezzare le sbarre di ferro più basse della grata interna, in maniera poi che potessero contorcerle e quindi farsi un passaggio.
Qualcuno si chiederà a questo punto: come sono riusciti ad eludere la vigilanza interna per ben sette giorni? I picciotti furono tanto previgenti che quando uno segava gli altri sette facevano chiasso, cantando e gridando.
Avendo terminato i carcerati questo lavoro, restava la grata esterna, che solo da fuori poteva essere strappata. Giuliano accolse l’invocazione e, venuto a conoscenza da un altro biglietto che il lavoro interno era stato ultimato, si recò nelle vicinanze di Monreale e si presentò verso le 12 sotto le mura del carcere. Tirò una pietra nella finestra che gli era stata indicata e da questa gli rispose il cugino, il quale lo esortò ad allontanarsi per il pericolo dei carabinieri e ritornare verso l’Ave Maria. La sera Giuliano ritornò. Trovando nei pressi, secondo quanto avevano stabilito, quel tale che era riuscito a fare entrare nel carcere le seghe, munito di una scala di legno e di pali di ferro.
Turiddu fece mettere quel giovane di piantone all’angolo del fabbricato, con la consegna di aprire il fuoco nel caso di arrivo dei carabinieri: e lui iniziò, salito sulla scala, il lavoro di sfondamento. L’impresa che gli era sembrata in un primo momento facile gli costò invece tre lunghe ore di lavoro, dato che le sbarre erano doppie ed incrociate. Dovette rompere il muro sottostante alla grata per riuscire a trovare le sbarre che in esso erano conficcate. Così fatto, le torse riuscendo ad aprire un varco. Da questo gli otto carcerati allegramente se la svignarono, salutando forse per sempre quel luogo di correzione a loro funesto; si diressero nel buio della notte verso le montagne”.
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