"Santa Lucia pani vurria, pani nu nn'hauiu, accussì mi staiu"
Il calendario gregoriano il tredici dicembre festeggia il giorno del martirologio di Santa Lucia, la Vergine siracusana protettrice degli occhi, data che anticamente corrispondeva allo sfasamento fra l'anno solare e il calendario giuliano e quello tropico, in coincidenza con il più corto periodo di luce dell'anno.
A Palermo, in questo giorno in cui si celebra la Vergine siracusana, si ricorda un vetustu avvenimento, che la Santa implorata dai palermitani esaudì facendo arrivare nel porto un bastimento carico di grano. I palermitani stretti nella morsa della fame da diversi mesi di carestia, non molirono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per sfamarsi in minor tempo, aggiungendogli soltanto un filo d'olio, creando così la "cuccia".
Da quella volta i palermitani specialmente in ambito popolare, ogni anno per devozione ricordano solennemente l'evento, rigorosamente ricorrono all'astensione per l'intera giornata dal consumare farinacei, sia pane che pasta, si preferisce mangiare riso, legumi e verdure, questi ultimi due alimenti ci riferisce il Pitrè anticamente in questo giorno erano le ragazze palermitane che per venerazione se ne cibavano e non doveva mancare la "cuccia", questa tradizione era dovuta alla preservazione degli occhi incantevoli. A questa devozione i palermitani la riportano ad un vecchio motto: " Santa Lucia, pani vurria, pani nu nn'haiu, accussi mi staju".
Un vecchio proverbio contadino dice che a Santa Lucia è "ù jurnù chi ù curtu cà c'è in tuttu l'annu".
In questa giornata si apre il periodo del lento incremento della luce diurna e annuncia la fine dell'oscurità invernale, esso è l'equivalente del detto: "La cchiù longa nuttata chi ci sia". Lo stesso nome Lucia, rappresenta il femminile di Lucius (Lucio) che significa "promessa di luce", questo nome a dato la possibilità al popolo di invocarla come protettrice della vista e della sanità degli occhi.
Fra le leggende agiografiche scritte per esaltare la Santa per una falsa analogia del suo nome foneticamente vicino alla parola luce, c'è ne una che narra che essendosi innamorato dei suoi occhi un giovane del luogo, Lucia, ligia al dettame del Vangelo dove una frase scritta da Matteo si pronuncia: se i tuoi occhi suscitano peccato, strappali e buttali via, si strappo gli occhi e li mandò in dono al giovane innamorato. Di notte, andò a trovarla al capezzale del suo letto Gesù che la guarì dalla cecità rimettendole nelle orbite gli occhi, più belli e più dolci di prima. Ad essa si raccomandano coloro che temono le affezioni della vista, i miracolati di qualsiasi località della Sicilia in cui abitano, in questo giorno anticamente offrivano ex voti di cera, nel nostro tempo impreziositi con metallo d'argento, che rappresentavano l'organo di questo senso.
La Santa, patrona di Siracusa di cui a dato i natali e, anche protettrice di Santa Lucia del Mela, venerata in diversi paesi delle diocesi della Sicilia ed in particolare di quella palermitana. Morì nel 304 a Siracusa martirizzata sotto la persecuzione di Diocleziano, la sua tortura durò parecchio tempo, scemata dalle forze, spirò nella sua cella che non riuscì mai a lasciare tranne per essere straziata, il suo culto, fin dall'antichità si diffuse in quasi tutta la Chiesa cristiana e il suo nome iscritto nel Canone romano, probabilmente da Gregorio Magno papa palermitano. Sovente nelle sue immaginette votive la santa è rappresentata con in mano un piatto, su cui sono posti i suoi occhi, strappatigli dai carcerieri, ma negli atti della sua vita attualmente esistenti non viene mai menzionata una simile tortura. Ricchi di significato espressivo appaiono anche la palma, simbolo del martirio e la lampada, metafora della luce.
All'occasione quasi tutti i panifici della città rimangono chiusi e, a predominare sul territorio rimangono le numerose friggitorie sia quelle stabili che quelle ambulanti che con i loro particolari trabiccoli raggiungono in ogni angolo gli avventori che per l'occasione diventano morbosamente golosi cibandosi avidamente di "panelle di ceci" e di "crocchè": comu siddu nun l'avissiru visti mai!! Ma la sofferenza di stomaco, in questa giornata di devozione non finisce qui! La cuccìa, infatti, è il dolce da gustare dopo una gran scorpacciata di "arancine" realizzate con il classico ingrediente a base di riso e, principalmente farcite da un concentrato di ragù con carne tritata e pisellini.
I più "delicati", la bella pallottona di riso, simile ad una grossa arancia, la preferiscono imbottita da una manciata di prosciutto e mozzarella (O' burro) ma il tempo e il gusto ha fatto sì che anche questa pietanza si aggiornasse con nuovi elementi tra cui le verdure e non a caso più delle volte sono gli spinaci e funghi a infarcire questa gustosa ghiottoneria. A pranzo solitamente i palermitani per non mangiare la pasta si rifanno al riso che viene consumato a "minestra" con l'associazione di "sparaccieddi", che comunemente gli italici chiamano broccoletti o "riso alla palermitana" dove il "timballo" è riempito da melanzane che la fanno da padrone, ma il periodo non sempre è favorevole, alcuni ricorrono a quelle conservate o quelle che oggi vengono coltivate nelle serre.
Il riso a volte e anche l'ingrediente principale per preparare il "grattò", un timballo farcito, ma a Palermo da antica data, lo sformato è costituito da patate bollite e rese a "purèa" con l'inserimento di caciocavallo o tuma, associate a insaccati locali. Tuttavia per questo giorno tutti aspettano la cuccia, creata e confezionata secondo tradizione, ma di questa tradizione rimane soltanto l'uso di consumarla da parte dei palermitani che per "manciunaria sono fatti o tuornu".
La questione della carestia durante la dominazione spagnola di sicuro, infatti, lascia il posto alla golosità e la cuccìa viene mangiata in ogni come, ad eccezione che bollita e condita con un filo d'olio per sfamarsi e rigorosamente dopo una dozzina di arancine ed ogni altra lecita vularìa! Insomma, 13 dicembre niente pane o pasta: una sofferenza alla quale ci si sottopone "A prova". Sì, avete letto bene... "A prova sferica!".
Infatti, dopo questo pranzo schittu schittu, privo di pane e pasta, se facendo due passi in giro doveste sentire l'eco bizzarro "pari na' arancina chi peri", soltanto allora avrete la certezza d'avere onorato degnamente la tradizione!
Mi raccomando...il caffè, che sia rigorosamente amaro!
Ingredienti : 500 grammi di frumento tenero, un pizzico di sale, 1 chilo di ricotta di pecora freschissima, 400 grammi di zucchero semolato, 300 grammi di zuccata, 150 grammi cioccolato fondente (a gocce o a pezzetti) granella di pistacchio q.b., cannella in polvere ed in stecca q.b.
PREPARAZIONE
Dopo aver tenuto il grano in acqua per un giorno, cucinatelo in acqua con due stecche di cannella. A cotura ultimata, scolatelo benissimo e lasciate raffreddare completamente.
Nel frattempo preparate la crema di ricotta.Passate a setaccio la ricotta fresca e, in una ciotola abbastanza capiente, aggiungete lo zucchero. Lavoratela energicamente con una forchetta o con una spatola. Lasciarla riposare per circa mezz'ora, quindi aggiungere la zuccata tagliata a piccoli cubetti, le gocce di cioccolato fondente e della cannella in polvere.
Unite la crema al grano amalgamando accuratamente e cospargendo il composto di granella di pistacchi, una spolverata di cannella in polvere e altre gocce di cioccolato.
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