"Chi beddu cocciu ri càlia chi m'ammattiu"
Non esiste in Sicilia festa patronale grande o piccina, estiva o invernale, orientale od occidentale che possa fare a meno del passatempo preferito dagli isolani, perché càlia e simenza sono per certi versi l'essenza stessa del ritrovarsi insieme.
IIl termine càlia, indica con precisione assoluta e incontrovertibile solo e soltanto i piccoli ceci tostati mentre il termine simenza è per la verità un pò vago. In generale, infatti, appartengono a questa categoria diverse tipologie di semi commestibili ma tutto ciò poco importa al palermitano doc. A Palermo e dintorni, infatti, il termine si collega immediatamente ai tanto graditi semi di zucca, leggermente tostati e salati e venduti dai tipici venditori ambulanti detti siminzari.
Nella gastronomia di strada, u siminzaru, non manca mai e con la sua bancarella coloratissima e decorata con pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l'immagine di Santa Rosalia al centro, diventa una dei punti di ritrovo del palermitano e dintorni.
In vendita sui loro banchetti, ormai quasi sempre mobili, trionfa "u scacciu", un insieme di frutta secca e sementi varie cu gusciu lignusu, comu nuci, nucciddi, mènnuli, carrubbe, favi sicchi, cruzzitieddi, càlia e simenza. Vularie che, come detto, sono particolarmente apprezzate dai siciliani e che li accompagnano abitudinariamente sia durante le loro passeggiate sia nei momenti di relax, tipici del dopo pranzo e delle serate estive.
Passiannu, passiannu, e riscurennu, riscurrennu, il siciliano ammazza u tempu consumandone chilate. Niente di meglio, infatti, che conversare amabilmente tra un coccio ri simenza e na scacciata ri càlia atturrata, con buona pace di coloro che non amano i rumori gastronomici.
Dopo i pasti poi consumare scaccio sembra essere una prescrizione medica, guai a privarsene. Quando finalmente intorno alle quattro e mezza del pomeriggio il pranzo o la cena volgono al termine e le vettovaglie vengono portate via, accompagnate da un gran vociare, tintinnii di porcellane e posate e sciabordare d'acqua in lontananza, il centro tavola viene occupato da un enorme vassoio colmo del cosiddetto "scaccio", la "delicata" conclusione di ogni luculliano pasto conviviale tra amici e parenti.
E' noto a tutti quanto càlia e simenza, elementi essenziali della cultura siciliana, stimolino spesso il dibattito o la riflessione. A tal proposito, i lettori di Camilleri ricorderanno certamente, che il commissario Montalbano, per riflettere sugli intricati casi che si trova di volta in volta a dover risolvere, si concede spesso lunghe passeggiate mangiucchiando proprio càlia e simenza.
Mangiare simenza non è per niente un'impresa semplice, ma un'arte che richiede esperienza e perizia. Ogni seme, infatti, per esser consumato a dovere deve essere portato alle labbra del consumatore con pollice ed indice: le due dita tengono fermo il guscio, i denti lo serrano e lo mordicchiano dall'estremità più pronunciata. Le labbra assaporano il sale mentre gli incisivi varcano il passaggio alla fuoriuscita del gustoso seme verde e croccante.Roba da denti forti e capaci, anche se nulla rappresenta in confronto alla maestria ed accortezza che deve applicare chi si cimenta a gustar la cubbaita o la petrafennula (ricette già presenti nella nostra rubrica).
La preprazione della simenza anticamnete era assai caretteristica. I semi di zucca, infatti, venivano essiccati al naturale, Subito dopo la raccolta le zucche, aperte per la vendita al dettaglio, venivano private dei loro semi e questi distesi sopra ampie lenzuola esposti sole "no chianu da marina, ri santu Nnofriu e amagiuni (alla Magione), luoghi che a Palermo erano preposti a tali attività. Dopo diversi giorni, di continua esposizione al sole, i semi si raccoglievano. Una parte di questi, venivano cosparsi di sale grosso per la produzione del tipo "salato", la parte restante, invece, veniva riposta immediatamente dentro enormi sacchi di juta e destinata alla vendita.
Il binomio perfetto della simenza è per l'appunto la càlia da cui deriva "càliari"- abbrustolire, pratica del torrefare, ovvero dare calore alcune pietanze.
Il termine "càlia" ai palermitani offre anche qualche spunto di colore: "Gnuranti comu a calìa" è infatti l'appellativo dialettale largamente usato nei confronti di un soggetto scarsamente considerato sia dal punto di vista culturale che intellettivo, "Si un coccio ri càlia" è la frase solitamente rivolta a bambini o ragazzi discoli che ne combinano di tutti i colori, "Quannu avi la carni voli la càlia" è l'espressione usata nei confronti di coloro che dimostrano di non apprezzare e stimare ciò che hanno ed infine, rivolgendosi agli ostinati, "Si chiù duru ra àlia n'furnata".
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