Cessi il fuoco, tacciano le armi: è un conflitto assurdo
Ieri sera partecipata manifestazione a Palermo presieduta dall’arcivescovo Lorefice
PALERMO, 5 marzo – “Uomo della pietra e della fionda, uomo del mio tempo, tacciano le armi, si inizi un cammino nuovo, si annunci a tutti il Vangelo della pace”. È il forte messaggio, il grido, l'esortazione dell'arcivescovo di Palermo monsignor Corrado Lorefice durante la veglia di preghiera per la pace in Ucraina e nel mondo sul sagrato della cattedrale che si è svolta ieri sera.
"Il conflitto è un fatto assurdo, come un passo indietro nella storia, un ritorno nel vecchio secolo", ha ribadito l'arcivescovo di Palermo durante il suo discorso.
"La guerra giunge oggi in questo scenario come un fatto assurdo, come un movimento retrogrado della storia. Non l’inizio di un nuovo secolo, ma un ritorno nel secolo vecchio, nel Novecento e nelle sue guerre mondiali, nelle sue invasioni, nei suoi conflitti. Perché – siamo sinceri – quel secolo non era finito nel 1989. Le sue logiche di contrapposizione, di sfruttamento, le sue guerre terribili e dimenticate – combattute nel Sud del mondo, nelle terre dei poveri e dei senza voce – sono state progressivamente amplificate e rese ancora più spietate dalla globalizzazione economica, da un Occidente che ha definitivamente sposato la logica del massimo profitto a qualunque costo, una logica che ha conquistato l’Oriente, che ha conquistato anche i popoli affacciatisi dopo il 1989 sulla scena globale come protagonisti della storia, dalla Cina, all’India, alle potenze asiatiche, ai paesi produttori di petrolio.
Tutto questo è accaduto in un dinamismo lineare, che veniva da lontano e che ha messo insieme il primato demoniaco della finanza, lo sfruttamento senza scrupoli di miliardi di persone, l’irrigidimento politico di regimi sempre più autocratici, sempre più affidati alla forza effimera di un uomo solo al comando, di un führer, o meglio di un verführer, di un seduttore. C’è una relazione intima tra l’oligarchia economica e l’oligarchia politica, tra la crisi delle democrazie come spazi di partecipazione, discussione, di parola, di dialogo, e la crisi di un mondo squilibrato e ingiusto, che schiaccia i popoli africani, i popoli sudamericani, i popoli del lontano Oriente, costringendoli spesso a migrazioni epocali.
La guerra in Ucraina giunge a noi dunque non come un incidente di percorso – care amiche, cari amici – ma come l’estremo punto di resistenza di un mondo che non vuole finire, di un secolo che non vuole finire.
Di fronte a questa guerra non possiamo anzitutto non chiedere con tutte le nostre forze che ci sia un cessate il fuoco, che tacciano le armi, che si metta fine a questa invasione insensata, che il popolo dell’Ucraina torni a vivere in pace. Penso ai tanti innocenti morti in questi giorni. Sento lo strazio dei padri rimasti a combattere, che hanno salutato piangendo le loro donne, i loro figli in partenza verso luoghi sicuri. Penso cioè al dolore della guerra e ai segni di umanità, di passione per la verità e la giustizia che non sono mancati in questi giorni. Mi risuonano alle sagaci parole di Lev Dodin, un grande regista russo quasi ottantenne: «La misericordia, la compassione e l’empatia non sono soggette alla volontà degli stati e dei politici. È impossibile dettare alla gente quando e per chi deve avere paura, quando e per chi deve avere pietà. Attualmente, nessuno Stato ha imparato a comandare i sentimenti degli uomini».
Ecco, dinanzi a tutto questo, qui con voi, stasera, io non posso non ricordare non posso non annunciare a tutti noi la parola del Vangelo. È una parola che ci giunge da una logica altra, apparentemente folle: la logica dell’amore per i nemici; la logica della consegna della vita per la salvezza dell’altra, dell’altro; la logica di una fraternità che non lascia nessuno fuori di casa, perché la casa è del Padre, la casa è di Dio.
Non leggiamo gli eventi di questi giorni – care sorelle, cari fratelli – solo come un incidente, come la reazione paranoica di un dittatore. Quel che succede oggi viene da lontano e ci interpella tutti. Ci chiede se vogliamo continuare a perseguire il logos della guerra o il logos della pace. Se vogliamo ascoltare la beatitudine dei costruttori di pace o continuare a credere che solo la guerra sia la risoluzione ultima dei conflitti. In questo momento si corre alle armi, si scambiano le armi, si usano le armi. Sempre più subdole e micidiali. Ma i popoli europei per primi devono ricordare che non saranno le armi, non saranno i blocchi, non saranno le contrapposizioni assurde e fittizie tra l’Occidente democratico e l’autocrazia dell’Oriente (è la ‘nostra’ visione), ovvero tra la Russia dei valori e l’Occidente capitalistico e decadente (è la visione di Putin) a rompere il cerchio del secolo vecchio, del Novecento che non vuole morire.
Ripartiamo da quel sentimento umano profondo che unisce i popoli. Vi ricordo che durante la Prima Guerra mondiale era fonte di grande timore dei comandanti il fatto che i soldati delle parti avverse, dalle rispettive trincee, potessero guardarsi negli occhi. Perché era molto difficile sparare ad un altro uomo, un uomo come noi, come tutti, dopo averlo guardato in faccia. È questo il seme della fraternità universale, della civiltà della misericordia annunciata nel Vangelo. Le viscere di Dio e la sua compassione sono anche le nostre viscere. Come se Dio avesse impresso nel profondo di noi stessi, nei nostri corpi viventi, il sigillo della sua stessa misericordia, lo stesso sussulto provato da Gesù davanti alle folle, provato dal Padre davanti alla croce del Figlio.
Ecco perché chiedo a tutti noi stasera – come fece Gesù di Nazareth davanti a quanti ascoltavano il suo discorso dalla montagna – di levarci in piedi, di iniziare un cammino nuovo. Un cammino di giustizia, in cui il sentimento e la compassione vengano prima del profitto e dell’economia. Un cammino in cui i popoli abbiano di nuovo la parola e non i potenti, gli oligarchi, i grandi della Terra. Un cammino in cui l’accoglienza dell’altro prevalga sulla paura e sulla divisione. Un cammino – ricordiamolo – che riguarda la politica ma tocca anche la nostra vita di ogni giorno. Perché tutto questo non potrà essere se le nostre case non saranno aperte, se le nostre relazioni intime non saranno improntate alla dolcezza e alla comprensione, se i nostri volti e i nostri corpi non si riconosceranno, se non porteremo le sofferenze e le gioie gli uni degli altri, se non condivideremo il peso e la bellezza della vita.
Non leggiamo gli eventi di questi giorni – care sorelle, cari fratelli – solo come un incidente, come la reazione paranoica di un dittatore. Quel che succede oggi viene da lontano e ci interpella tutti. Ci chiede se vogliamo continuare a perseguire il logos della guerra o il logos della pace. Se vogliamo ascoltare la beatitudine dei costruttori di pace o continuare a credere che solo la guerra sia la risoluzione ultima dei conflitti. In questo momento si corre alle armi, si scambiano le armi, si usano le armi. Sempre più subdole e micidiali. Ma i popoli europei per primi devono ricordare che non saranno le armi, non saranno i blocchi, non saranno le contrapposizioni assurde e fittizie tra l’Occidente democratico e l’autocrazia dell’Oriente (è la ‘nostra’ visione), ovvero tra la Russia dei valori e l’Occidente capitalistico e decadente (è la visione di Putin) a rompere il cerchio del secolo vecchio, del Novecento che non vuole morire.
Ripartiamo da quel sentimento umano profondo che unisce i popoli. Vi ricordo che durante la Prima Guerra mondiale era fonte di grande timore dei comandanti il fatto che i soldati delle parti avverse, dalle rispettive trincee, potessero guardarsi negli occhi. Perché era molto difficile sparare ad un altro uomo, un uomo come noi, come tutti, dopo averlo guardato in faccia. È questo il seme della fraternità universale, della civiltà della misericordia annunciata nel Vangelo. Le viscere di Dio e la sua compassione sono anche le nostre viscere. Come se Dio avesse impresso nel profondo di noi stessi, nei nostri corpi viventi, il sigillo della sua stessa misericordia, lo stesso sussulto provato da Gesù davanti alle folle, provato dal Padre davanti alla croce del Figlio.
Ecco perché chiedo a tutti noi stasera – come fece Gesù di Nazareth davanti a quanti ascoltavano il suo discorso dalla montagna – di levarci in piedi, di iniziare un cammino nuovo. Un cammino di giustizia, in cui il sentimento e la compassione vengano prima del profitto e dell’economia. Un cammino in cui i popoli abbiano di nuovo la parola e non i potenti, gli oligarchi, i grandi della Terra. Un cammino in cui l’accoglienza dell’altro prevalga sulla paura e sulla divisione. Un cammino – ricordiamolo – che riguarda la politica ma tocca anche la nostra vita di ogni giorno. Perché tutto questo non potrà essere se le nostre case non saranno aperte, se le nostre relazioni intime non saranno improntate alla dolcezza e alla comprensione, se i nostri volti e i nostri corpi non si riconosceranno, se non porteremo le sofferenze e le gioie gli uni degli altri, se non condivideremo il peso e la bellezza della vita.
Ai miei fratelli e sorelle cristiani qui presenti vorrei dire, prendendo in prestito le parola di un audace profeta della pace – il cardinale Giacomo Lercaro -, di concentrare esclusivamente le nostre forze in «un unico generale annuncio dell’Evangelo di pace a tutti, ma specialmente ai giovani, perché tutta la nostra gioventù possa divenire una grande forza, spirituale e storica, nei nostri giorni – malgrado tutte le tentazioni, tutti i miti e tutte le compromissioni di guerra – una forza grande, spirituale e storica nei nostri giorni “operatrice di pace» e perciò, secondo la promessa delle Beatitudini, veramente “figlia di Dio”» (Omelia, 1 gennaio 1968, Prima Giornata Mondiale della Pace).
Qualcuno dirà che quanto sto dicendo è solo un sogno, un’utopia. Non ho difficoltà a dire che è vero: questo è il sogno di Dio. Lo stesso sogno che abbiamo letto nel volto di quel soldato russo catturato e accudito dai suoi fratelli ucraini. Lo stesso sogno che ho sentito all’opera nel coraggio di migliaia di persone che nelle piazze russe hanno manifestato contro la guerra, consapevoli del rischio di essere arrestati, picchiati, schedati. Lo stesso sogno di quanti si sono prodigati, sono partiti, da donne e uomini comuni, per portare cibo, vestiti e medicine lì dove c’era dolore e distruzione. Quel sogno è vivo, operante. È la nostra realtà e tutta la nostra speranza".
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