La pratica del pane tra storia e tradizione: un mestiere antico che si tramanda di padre in figlio

Il pane cotto a legna: quando passione e bontà sono valori inscindibili

MONREALE, 4 novembre – Un pannello in ceramica posto sulla parete esterna di via Odigitria - a pochi metri dalla chiesa dell’Itria nel centro storico di Monreale - che riporta alcuni versi tratti dalla poesia ‘Ode al pane’ del poeta cileno Pablo Neruda, “la terra, la bellezza, l’amore tutto questo ha sapore di pane” accoglie i tanti monrealesi e turisti che quotidianamente si recano a gustare le prelibatezze di un antico forno a legna.

Pane cotto a legna, ‘vastidduna’, filoni, quartini, il pane cunzato, cioè le schiacciate condite con olio d’oliva, cacio cavallo e pomodoro, sfincione e i famosi biscotti di Monreale, i prodotti da forno più richiesti, preparati con le antiche ricette tramandate di padre in figlio.
Rapiti dall’inebriante fragranza e attirati dal profumo unico del pane della terra di Sicilia, affiorano alla memoria i tanti modi di dire, che da sempre fanno parte del nostro patrimonio linguistico e dialettale.
Nn’è manciari pani duru; fammi vuscari u pane; u Signuri duna u pani a cu nun su sapi arrusicari; fare cadere il pane dalle mani; non è pane per i tuoi denti; levarsi il pane di bocca; mangiare pane a tradimento; buono come il pane e assicurarsi il pane per la vecchiaia, e tanti altri riferimenti che non hanno bisogno di spiegazioni, e che tramandano nel volgere del tempo saggezza e cultura.
Il pane, un alimento antico quanto l’uomo fatto di acqua, farina e lievito naturale “u criscenti”, viene lasciato riposare e coperto da una leggera stoffa per non far seccare l’impasto, e sul quale era consuetudine fare una croce sopra con una lama o un coltello per ricevere la benedizione di Cristo, a testimonianza del valore sacro che vi si attribuiva.
Ingredienti semplici e di grande importanza nella nostra alimentazione per le sue proprietà organolettiche e nutrizionali, il pane gode oggi una nuova riscoperta e una rivalutazione senza precedenti.

In suo nome vengono celebrate feste e sagre in tutte le regioni del nostro bel paese, quale attrattiva turistica, assegnandovi riconoscimenti e tributi ed esaltandone ognuna, le specifiche caratteristiche.
Sul pane sono state scritte poesie, racconti e aneddoti che, oltre a esaltarne la fragranza e la bontà ne hanno rilevato il forte legame con la storia e il lavoro dell’uomo. Fiabe, scritture bibliche, preghiere, storie di popoli e opere d’arte hanno dato al pane innumerevoli significati.
Anche il titolo del famoso film “Pane, Amore e Fantasia” del 1953, girato in un paesino del Lazio abitato da povera gente e da contadini, fu ispirato dalla vista di un anziano che seduto davanti all’uscio di casa teneva in mano una pagnotta di pane.
Si racconta che durante una pausa tra una scena e l’altra, De Sica vide un contadino che si accingeva a mangiare del pane, avvicinatosi all’anziano uomo chiese cosa mettesse dentro la pagnotta, a quella domanda il contadino rispose: la fantasia e da lì il nome Pane, Amore e Fantasia, film che ebbe grandissimo successo.
Il pane, alimento dei poveri, metafora di salvezza che Gesù moltiplica per sfamare il suo popolo, implorazione nella preghiera rivolta al Padre Nostro.

Spezzare il pane, gesto di grande valore dottrinale per tutti i credenti, quale insegnamento da ripetere sempre e in tutti gli angoli della terra; corpo di Cristo nell’ultima cena, e nelle opere dei più grandi artisti della storia, ma anche simbolo di tradimento nei momenti drammatici che precedono la cattura e la crocefissione del figlio di Dio; Giuda intinge il pane nel piatto di Gesù, davanti agli apostoli sbigottiti.
Il pane sulla tavola, benedetto dal gesto della mano del Cristo risorto, davanti ai due apostoli sorpresi della presenza del loro maestro è il protagonista nei due dipinti di Caravaggio, “Cena in Emmaus” della National Gallery di Londra e della Pinacoteca di Brera.
E come non citare l’opera a noi vicina di Pietro Novelli “San Benedetto distribuisce la regola sotto forma di pani” per il refettorio benedettino, e oggi posto sulla parete dello scalone del Complesso Monumentale Guglielmo II.
Nell’opera di Vermeer “Lattaia” il pane fresco sul canestro si fa realtà fisica e palpabile, pronto per essere inzuppato nel latte che la donna sta versando nella ciotola.

"/

Nelle civiltà contadine il ciclo del pane ha un significato antropologico, simbolo di fertilità, abbondanza, provvidenza e dono divino; lontano nel tempo è il rituale di riporre il pane sugli altari delle chiese nel giorno di San Giuseppe in segno di gratitudine.
Una credenza popolare vuole che la notte prima di abitare in una nuova casa, la tavola da pranzo venga imbandita di generi alimentari e di una forma di pane solitamente grande e rotonda per guadagnarsi la benevolenza delle “presenze” di quella dimora a garanzia di quiete e di provvidenza.
Nella poesia “Gli emigranti ripartono” di Ignazio Buttitta è molto significativa l’imprecazione amara alla propria terra: “Addiu bedda Sicilia, oh terra mia d’aranci! Oh terra mia d'aranci, d’aranci e di canzuni; u’ latti mi lu dasti ma pani un mi nni duni - in riferimento alle madri che allattano i figli e alla terra dove sono nati, che purtroppo non garantisce un lavoro e li costringe a emigrare lontano dai propri affetti.

Pane razionato e distribuito dietro esibizione di una tessera, durante i difficili anni della guerra e il conseguente contrabbando della farina, avvenimenti che il passato ha scritto, e che sono ancora vive nella memoria di chi ha vissuto quei tristi momenti.
Il pane inteso come sostentamento per tutta la famiglia, andare a lavorare per guadagnarsi un pezzo di pane, metafora del vivere quotidiano, finalizzato al raggiungimento di una condizione di vita migliore, quale riscatto da una precarietà quotidiana.
Pane che riaffiora dagli scavi di Ercolano dopo quasi duemila anni, i cui abitanti non riuscirono a mangiarne per l’imprevista eruzione, che causò la loro distruzione.
Il pane mi riporta alla memoria alcuni aspetti della mia fanciullezza, quando nella campagna tra Fiumelato e Giacalone dove risiedevo nei mesi estivi con la mia famiglia, la Signora Maria, infaticabile lavoratrice impastando a mano acqua e farina nella Maidda di legno, faceva il pane per soddisfare i villeggianti della contrada. La “Signura Maria, chidda ru pane” - così tutti la chiamavamo confidenzialmente per la quotidiana frequenza che si aveva con la sua putia - faceva lo sfincione su ordinazione, la cui bontà ha valicato i confini monrealesi.
Ho un ricordo vivo e nitido di quei luoghi, dei pomodori che pendevano dalle travi del tetto, e dell’odore forte dei pezzi di formaggio riposti sul banco; la signora mi donava tutti i giorni un pupiddu di pane, un quartino di peso che io ritiravo puntualmente, frutto di una promessa fattami, e che mantenne per lungo tempo.


Il marito, “u zu Mimì Albano” oltre a essere un esperto contadino era un bravo costruttore di forni a legna, alla maniera antica e cioè preparata la base, si riponevano i mattoni in cotto a emisfero - servendosi di una “cartedda” in vimini – e su di essa si costruiva una calotta fino alla completa copertura, munita di un’apertura detta bocca del forno. Finita la costruzione si ricopriva con la calce e successivamente si bruciava la cesta all’interno che era servita per la costruzione del forno, procedimento questo a cui ho assistito, e ne conservo nostalgica e precisa memoria.
E poi un amico, di indole sensibile dedica al pane alcuni versi che racchiudono una quotidianità scandita da gesti sapientemente misurati, e dalla consapevolezza di un mestiere unico.

Tra tanti panini e pani, iu, supra tutti àiu lu vantu,
ca farina, l’acqua e a natura a livitari e poi lu mantu,
facci a cruci e s’arriposa
c’accussi un’è na cosa,
n’tà maidda mpastanu li vrazza
camìa, adduma ligna r’alivi e crozza.

Vastidduna, menzichili e quartini
i furnati l’amu a fari beddi chini,
pigghiami sta tavula, proimi stu pani
ca à essiri prontu prima di rumani,
agghiurnò e prima ca lu addu canta
a genti già pa strata ri lu ciavuru si ncanta.

Cu su porta a travagghiari, cu su sarba pi tri ghiorna,
cu sulu u tasta… e doppu torna
cu lu fa cu tantu amuri tutti i notti li fa ghiorna,
picchì ‘mpasta, aspetta… e ‘nfurna
fa lu pani cu l’amuri tramannatu
cu passioni e strasuratu,
sfurnalu ch’è prontu, emu all’avutra e va ‘mpasta
ca sta furnata un ci bbasta.

Mentre scrivo queste riflessioni sul pane, apprendo la notizia della scomparsa di una persona molto conosciuta a Monreale, Giuvà - pace all’anima sua - che di pane nnò cartidduni a spalla ne ha portato, casa pi casa un’enorme quantità.
Ricordi di un tempo passato, di gente umile, laboriosa e genuina come il pane che si sforna giorno dopo giorno nell’antico forno Litria, l’amore per un mestiere antico e sempre attuale, per una terra, la nostra, la cui bellezza ancora oggi ha sapore di pane.