Contiguo alla mafia? Adesso parlo io

L’imprenditore monrealese Calcedonio Di Giovanni, dopo 8 anni, rompe il silenzio sulla sua vicenda personale

MONREALE, 12 agosto – Pe otto anni se ne è stato in silenzio religioso, subendo i pesantissimi provvedimenti che la sezione “Misure di prevenzione” del Tribunale di Palermo ha adottato nei suoi confronti. Adesso, invece, ha deciso di far sentire la sua voce con decisione.

Calcedonio Di Giovanni, 82 anni, per quasi 50 è stato un imprenditore di successo, un numero uno nel mondo dell’edilizia, legando il suo nome a numerose realizzazioni. Una su tutte: quella di Kartibubbo, Campobello di Mazara, dove è sorto un grandissimo complesso residenziale, dove vanno a fare le vacanze centinaia di famiglie, alcune delle quali pure monrealesi.
Nell’ottobre 2014, però, arriva la mazzata, quando, nel corso di una conferenza stampa convocata all’uopo, la Dia di Palermo annuncia l’adozione di misure di sequestro dei suoi beni, sparando una cifra-boom: 450 milioni di euro. Misure che sono state confermate, successivamente, via via, nel corso di questi anni, fino alla confisca definitiva. Motivo? Di Giovanni viene considerato “contiguo” alla mafia. In pratica, il suo patrimonio, secondo il tribunale, è come se fosse stato accumulato grazie a determinati rapporti e per questo c’era necessità che venisse stoppato. E pazienza se Di Giovanni, non solo non è mai stato condannato per mafia, ma nemmeno processato o semplicemente indagato. È la dura legge delle misure di prevenzione, il cui tribunale palermitano, purtroppo, sappiamo tutti di cosa abbia fatto parlare in questi ultimi anni (cosiddetto "sistema Saguto" docet).
Adesso, però, come detto, Calcedonio Di Giovanni ha deciso di dire la sua, dopo anni di silenzio. Lo fa per riabilitare la sua figura di uomo e di imprenditore. A beneficio, soprattutto, dei suoi figli e dei suoi nipoti, stanchi anch'essi di vivere con questa pesante "ombra" sulla testa.

Preliminarmente vorrei fare qualche breve, ma importante, precisazione in merito all’esatta entità del patrimonio oggetto di confisca – afferma in una lunga nota diffusa oggi alla stampa – Nel 2014 era stato quantificato in 450 milioni di euro dalla Dia, per poi essere comunicato, nel 2016, di “soli” 100 milioni. Ritengo, però che vada reso noto il reale ammontare del patrimonio immobiliare in poco più di 10 milioni di euro. Una stima effettuata non da me, ma dal dottore commercialista Luigi Antonio Miserendino e dall’avvocato Roberta Paderni, vale a dire i due professionisti nominati dal tribunale per la gestione giudiziaria del sequestro nell’aprile 2015. Di questi 10 milioni di euro, peraltro, il valore reale non supera i 4, dal momento che, ad oggi, una sola società è attiva, la “Compagnia Immobiliare del Titano”. Le altre sono tutte in liquidazione o fallite”.

Ma anche sui suoi presunti rapporti con Cosa Nostra Di Giovanni adesso vuole togliersi qualche sassolino dalla scarpa, prendendo le opportune distanze dagli ambienti ai quali è stato associato.
Quanto alla mia presunta vicinanza o “contiguità” con la mafia – scrive ancora l’imprenditore monrealese – affermo di non aver mai avuto alcun rapporto con essa e che questa possa essere catalogata come un romanzo, dal momento che non sono mai stato indagato per mafia, accusato, né tantomeno imputato di nulla. Sono stato “dipinto” come pericoloso, ma non c’è assolutamente alcuna attinenza temporale tra l’acquisizione del patrimonio e questa presunta pericolosità. Tra i comportamenti “incriminati” ci sarebbe quello di una mia vicinanza al boss Buzzotta di Mazara del Vallo, possessore di un monovano dell’Hopps Residence che era di proprietà di mia moglie, che era stato ceduto a tale geometra Stradella, negli anni ’80 e soltanto poi da questo ceduto a Buzzotta, che io peraltro non conosco.

Nel mirino – aggiunge – è finita pure la cessione di una villetta a Kartibubbo al boss Mariano Agate, forse volutamente dimenticando che io la cessione la effettuai a, tale, dottor Mannone di Torino, nel 1979, che a sua volta cedette ad Agate, con il quale, pertanto, io non ho mai avuto alcun dialogo. La mia presunta appartenenza alla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo si fonda, pertanto, su questa impalcatura, che non si regge in piedi.
Sono stato etichettato, inoltre, come “dominus” e come “oscuro impiegato regionale”. Ritengo, però, sia il caso di precisare come io non sia mai stato né solo, né tantomeno oscuro. Ero un imprenditore valente ed affermato già nel 1969, che agiva assieme ad altri, in un gruppo solido e ben avviato con capitale sociale di 100 milioni di lire che per i tempi (1972) erano una cifra considerevole, tanto da poter lasciare l’impiego direttivo regionale. Non ero un personaggio oscuro, ma un personaggio pubblico, noto soprattutto a Mazara, dove ero pure il presidente della squadra di calcio nel 1973-74.
Nel 1974 ho avuto rapporti con Roberto Palazzolo, che in quel tempo non era mafioso, attraverso la “Campobello Park Corporation” di cui era presidente. Poi dopo circa 20 anni Palazzolo diventò un trafficante di droga e diamanti in Sudafrica, ma non ha più rimesso piede in Sicilia e io non l’ho mai incontrato
”.

Nella sua ricostruzione Di Giovanni parla pure di episodi che riguardano la sua vita imprenditoriale a Monreale. Episodi degli anni ’70, che, comunque, hanno caratterizzato fortemente in negativo la sua attività. “Non ce n’è una, dicasi una, che si possa ritenere come legata alla mafia – conclude Calcedonio Di Giovanni – sia a Monreale dove operavo con le licenze edilizie del 1974, avviate legittimamente e colpite da atti illegittimi nel 1975 dall’allora commissario straordinario del comune Giovanni Giannuoli, per i quali il comune è stato condannato, che a Kartibubbo, struttura colpita da fermo lavori del 1976 dalla sovrintendenza, altrettanto illegittimamente. Per non parlare poi del blocco cantiere nel 1977 da parte del pretore Dell'Acqua di Monreale al Villaggio Primavera dei fratelli Di Giovanni a Renda. Altro atto che si è dimostrato illegittimo”.
Di Giovanni, per il futuro, non dispera e, chissà, questa lunga telenovela, potrebbe riservare ancora qualche altra clamorosa sorpresa.