La sua morte fu decretata dal padre Antonino, boss del quartiere Acquasanta. Ad oggi il Viminale nega alla donna lo status di vittima di mafia
PALERMO, 23 settembre – La mafia che non uccide donne e bambini - nonostante il mito granitico costruito ad arte da Cosa Nostra - non è mai esistita. La storia di Rosalia Pipitone ne è una delle tante, tristi prove.
È il 1977 quando Lia, figlia del boss del quartiere Acquasanta di Palermo Antonino Pipitone, decide di fuggire da casa poiché desiderosa di coronare il proprio sogno d’amore con Gero Cordaro. I due si conoscono al liceo artistico Catalano e decidono di frequentarsi, ma il padre di Lia vuole a tutti i costi ostacolare quel rapporto. Minacce e intimidazioni non fanno desistere i due giovani, artefici di una fuitina che mette tutti davanti al fatto compiuto.
Dal matrimonio di Lia e Gero nasce Alessio, ma l’unione è destinata a rompersi. La ragazza ha solo 24 anni quando l’organizzazione mafiosa, su sollecito del padre, ne dispone l’uccisione. Una donna libera, che esce di casa senza il marito, che vuole separarsi, non può essere risparmiata: deve pagare con la vita per aver disonorato la famiglia. Per questo Lia Pipitone viene assassinata il 23 settembre 1983, al termine di una finta rapina in una sanitaria. Una violenza doppia, un omicidio di mafia che ha anche le motivazioni del femminicidio: eppure, per la giustizia italiana, ciò non è abbastanza.
Anche un caro amico della donna, Simone Di Trapani, viene fatto uccidere perché sospettato di esserne l’amante. Saranno le dichiarazioni rese da alcuni ex soldati di Cosa Nostra, tra cui Giovanni Brusca e Antonino Giuffrè, ad aiutare gli inquirenti a ricostruire i fatti. Alle stesse si aggiungerà successivamente la testimonianza del figlio di Rosalia Pipitone, Alessio Cordaro, trasposta dalla penna del giornalista Salvo Palazzolo nel libro: “Se muoio, sopravvivimi”, la cui pubblicazione si rivela determinante per la riapertura del caso. Nonostante le condanne definitive a trent’anni di reclusione inferte a Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia nel 2018, e l’accertamento giudiziario del fatto che Lia non morì al culmine di una “rapina finita male”, per il ministero dell’Interno la donna non è una vittima di mafia, non possedendo i “requisiti” necessari. Alla memoria di Lia Pipitone è dedicato il centro antiviolenza palermitano che porta il suo nome e fa capo all’associazione Millecolori onlus.