Insulti di matrice razziale all’attaccante della Juventus Dusan Vlahovic, il calcio italiano si macchia di un altro caso
Quasi terminata un’altra giornata del campionato di Serie A, in maniera sempre più frequente ci troviamo, nella rassegna stampa del giorno dopo, a fare ancora i conti più con fatti extra-campo, che con la mera cronaca delle sfide.
I maggiori quotidiani e le trasmissioni più viste hanno registrato ancora una volta un episodio di razzismo, subito stavolta dal centravanti della Juventus Dusan Vlahovic.
Il numero 9 bianconero sin dal suo ingresso in campo, avvenuto al minuto 65, è diventato il bersaglio principale degli spalti del Gewiss Stadium, che gli hanno rivolto diversi epiteti poco felici riguardanti la sua provenienza slava.
Il giovane attaccante serbo ha iniziato ad infastidirsi, richiamando l’attenzione dell’arbitro Doveri per invitarlo a placare il pubblico infervorato.
Il modo migliore per rispondere è stato quello di trovare il gol del definitivo 2-0, che ha chiuso la partita per i bianconeri.
Lo spiacevole avvenimento fa il paio a quello avvenuto un mese fa all’Allianz Stadium, casa della Juventus, dove i tifosi bianconeri hanno preso di mira l’attaccante dell’Inter Romelu Lukaku, rivolgendogli cori ed ululati di stampo razzista. Gli stadi continuano a popolarsi di gente ignorante, maleducata, che trova il pallone un pretesto per dare sfogo alle loro più debilitanti ingiurie e cattiverie.
Di modi per arginare la piaga del razzismo ce ne sono diversi: uno di questi è sicuramente l’intervento di figure rilevanti del pallone italiano, che provano a combattere uniti verso un’unica direzione: quella del debellare il fenomeno razzista dagli stadi d’Italia.
Quando, però, sono le stesse figure ad ignorare e sottovalutare questi spiacevoli avvenimenti, probabilmente capiamo che la situazione rimarrà bloccata in un circolo vizioso che ci condurrà sempre a queste parole, sempre a questi momenti nei quali non ha senso stare a parlare di diagonali difensive o passaggi filtranti.
L’esempio lampante di ciò è il modo con il quale l’allenatore dell’Atalanta, Gian Piero Gasperini, ha scelto di descrivere ciò che è avvenuto in campo, tacciandolo come semplice maleducazione ed evidenziando come gli insulti razziali facciano parte del pantheon di cori utilizzabili dai tifosi di ogni dove. La reale pericolosità del razzismo abita nel suo essere considerato normale, del suo essere parte dello spettacolo del calcio, che deve esulare da certi comportamenti. Ed è ancora più pericoloso quando questa visione viene pensata e successivamente esplicata in mondovisione da una delle personalità più importanti del movimento calcistico del Belpaese, allenatore e capo spirituale degli stessi tifosi protagonisti del misfatto.
Il ragionamento di Gasperini non riesce a trovare un posto a sedere nell’aula che dovrebbe essere il nuovo corso del calcio italiano e non solo, fatto di tanti slogan e iniziative che affogano nell’ipocrisia di chi questo corso dovrebbe mandarlo avanti.
La presunzione del tecnico dell’Atalanta di provare ad imporre la sua visione è stato solo un tentativo becero di come sia effettivamente radicato e prontamente giustificato il razzismo all’interno dell’ambiente sportivo, perché “sono solo cori, è solo una partita di pallone”.
Una presunzione dettata dal fatto che probabilmente lo stesso Gasperini non ha mai sperimentato nulla di simile in vita sua, non ha mai provato ciò che Vlahovic, Lukaku e tanti altri come loro hanno dovuto passare all’interno dei campi di tutto il Paese. Il resto del mondo, purtroppo o per fortuna, ci guarda indignati, mentre l’opinione pubblica continua a spaccarsi. Se non riusciremo ad alzare l’asticella della sensibilità, se non si riuscirà a rendere effettivi tutti gli hashtag o gli slogan fatti ad hoc, allora non potremmo più parlare di pallone. Non ci saranno più vittorie o pareggi, ma solo sconfitte di un calcio italiano ricco di parole ma povero di empatia.