Tutto vero: siamo campioni d’Europa
Non svegliatemi. Non svegliateci. Da questo sogno che d’incanto si è tinto d’azzurro. Che ha visto 26 uomini, ragazzi come noi, spingersi oltre quello che neanche la più pazza e meno lucida mente umana potesse anche solo sperare di raggiungere.
“Quest’Italia gioca bene solo contro le squadre scarse”, “Uscirà presto, non arriverà in fondo”, “Gli Italiani non sanno vincere”.
Frasi, opinioni, uscite anche fuori luogo, dette e ridette non solo dai tifosi da quattro soldi di ogni nazione, ma anche da ex stelle di questo sport come Vieira, Neville, e tanti altri.
E noi, zitti. Abbiamo fatto parlare il campo. Del resto, siamo fatti così, sappiamo soffrire. Riusciamo perfettamente a descrivere il significato di “Resilienza”, quella più pura. Ci siamo rialzati, dopo il 2018, il nostro Medioevo Azzurro.
Una Nazionale senza stimoli, senza voglia, senza una guida tecnica e spirituale, senza quell’identità e quella sostanza che riesce e deve riuscire a coinvolgere tutti gli abitanti del Belpaese. Una Nazionale scarsa, questo eravamo. Ma se c’è una risposta a tutto questo, quella è stata il solo e unico lavoro.
Ciò non consisteva, e non consiste tuttora, nel lavorare con i ragazzi. Ma lavorare per loro. Su di loro. Falli crescere prima come uomini, e poi come calciatori. Creare una chimica di gruppo che riuscisse a farlo sembrare più che una serie di partite collocate in maniera sporadica durante l’anno, un vero e proprio impegno. Un dovere. Sentire il richiamo della bandiera, il senso di appartenenza. Lottare e non giocare. Divertendo e non deprimendo chi sta a guardare. Tutto questo è stato possibile grazie ad una figura in particolare: il mister, Roberto Mancini. Si, lo chiamo “Mister”, non Commissario Tecnico, come effettivamente dovrebbe essere.
Perché il Mancio non è stato solo alla guida di una spedizione estiva, ma di un vero e proprio ciclo cominciato in una delle tante amichevoli giocate controvoglia, e che non terminerà di certo qui a Wembley.
Magari per lui sì, un ciclo si chiude, e se lo merita tutto. Quel Wembley che gli aveva tolto il coronamento di un sogno, con quella Sampdoria dei miracoli e la finale di Champions persa, adesso gli ridona tutto con gli interessi, che consistono dell’essere non solo un eroe sponda doriana, ma per tutti gli italiani.E quando dico tutti, dico tutti.
Perché ieri davanti alla tv non c’erano solamente coloro che seguirebbero anche partite come un Panama-Perù, ma c’erano davvero tutti.
C’erano le ragazze, alle quali magari il calcio non interessa neanche, ma che davanti ai loro idoli come Chiesa o Immobile non possono far altro che innamorarsi e mettere storie su Instagram.
C’erano i bambini, che ciechi dall’entusiasmo del momento, cominciano a strombazzare fino a tarda notte, perché l’Italia ha vinto, e quell’inno che prima si studiava a scuola durante l’ora di musica, ora è un motivo di vanto.
C’era chi in Italia non c’è più, chi è andato via dalla sua terra cercando fortuna e speranze, e che si è rivisto in questa Nazionale, fredda razziatrice nel grigiore di Londra, contro tutto e tutti, inseguendo un sogno.
E c’era anche chi non c’è più. Chi questa maledetta pandemia ci ha portato via. Sconfitti, solo in parte, da un nemico invisibile, ma che oggi, nelle case e nelle piazze di tutta Italia, erano accanto ai loro cari che, per una notte, possono scordarsi di tutto.
Scordarsi i problemi, le pressioni, l’ansia per un futuro sempre più incerto.
E rifugiarsi, per una notte, nei sorrisi di quei ragazzi, che mordono una medaglia d’oro che vuol dire solo una cosa: abbiamo vinto.
E oggi, anche se dovrebbe esserlo sempre, è ancora più bello essere italiani. Ancora più bello abbracciarsi, anche se ancora virtualmente, tutti insieme. Ancora più bello, aver ricordato a tutti, a chi già si proclamava campione, a chi già ci dava per spacciati, che siamo ancora vivi. E adesso ci sentirete festeggiare.
Grazie ragazzi, siamo campioni d’Europa.