L’ autonomia speciale e lo statuto regionale non servono alla Sicilia e al suo sviluppo
Giovanni Pepi (www.giovannipepi.it), arguto giornalista che può vantare, in ragione della sua lunga carriera professionale, una profonda conoscenza di accadimenti e personaggi di Sicilia, ha posto nei giusti termini, con un lungo articolo pubblicato sul suo blog, la questione della utilità o meno, per la comunità siciliana, dell’autonomia speciale sancita nel vigente Statuto della Regione.
La conclusione cui perviene Pepi mi sembra abbastanza chiara: l’autonomia cosi com’è serve a poco e bisogna liberarsene per andare oltre in quanto “ si avverte il desiderio forte di omogeneità con l’Italia, con l’Europa, in un pianeta che cambia”. Non si pensi che si è davanti alla solita sortita riproposta, ogni tanto, dal politico di turno in cerca di visibilità, per fare un po’ di “scrusciu “ e conquistare qualche titolo sui giornali. No, nulla di tutto ciò. A me pare un tentativo ragionato per innescare, malgrado il dilagare della pandemia e le difficoltà economiche e finanziare della Regione, un dibattito, sereno e senza sbavature demagogiche, per fare uscire la Sicilia dalla marginalità nella quale è sprofondata per mancanza di idee, di una politica con la P maiuscola, di proposte, di programmi , d’ iniziative di ampio respiro. Ma, soprattutto, perché un ceto dirigente distratto, senza distinzione di colore politico e dalla corta vista, ha di fatto ridotto la Regione a mero gestore, con qualche difficoltà, dell’attività ordinaria. Fino a quando, beninteso, le poche risorse disponibili e i residuali poteri statutari lo consentiranno. Insomma un invito a guardarsi attorno, per individuare subito una via d’uscita improntata a realismo e lungimiranza per far assumere alla Regione Siciliana, depurata da orpelli obsoleti, anche di rango costituzionale, e da una barocca quanto costosa autoreferenzialità aggravata dall’intramontabile clientelismo, un ruolo propositivo e di spinta nel Mediterraneo, nel Mezzogiorno e nel contesto nazionale ed europeo.
E’ arrivato davvero il momento di “voltare pagina” e di chiudere per sempre una lunga, a volte nefasta, fase storico-politica che ha fatto il suo tempo e che non parla più al cuore e alle menti dei siciliani e soprattutto alle giovani generazioni che vedono l’Ente Regione non come luogo di opportunità ma isola nell’isola dei privilegi e dello spreco. Dietro l’angolo ci attendono le sfide della modernità che la Sicilia tutta ha il dovere di affrontare con pragmatismo per assicurarsi, in un futuro assai vicino, sviluppo economico, occupazione vera e produttiva, crescita civile e sociale.
L’autonomia speciale siciliana è svanita, è stata “sterilizzata” a suon di sentenze e da una prassi governativa che “snobba” la Sicilia. I politici se ne sono accorti? L’autonomia è nata male, è cresciuta “storta” fra mille a contraddizioni e oggi è in preda a patologie inguaribili. Quest’ultime, non lo scriviamo a mo’ di consolazione, non hanno risparmiato nemmeno le altre regioni autonome ( Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Sardegna), come si ricava dalle cronache politiche e giudiziarie. In tutto ciò non c’è, ahinoi, “disunità” nazionale.
Mentre l’Italia era drammaticamente spaccata in due ( il centro-nord subiva ancora il giogo nazi-fascista) e il referendum istituzionale e la contestuale elezione dell’Assemblea Costituente covavano nella mente di pochi, con Decreto legislativo luogotenenziale del 28 dicembre 1944, a firma del principe Umberto di Savoia, venivano ampliati i poteri dell’Alto Commissario per la Sicilia e si procedeva alla istituzione della Consulta regionale , composta da 36 membri, scelti fra i rappresentanti dei partiti e delle organizzazioni economiche, sindacali e culturali e fra competenti ed esperti, con il “ potere” di elaborare proposte per l’ordinamento regionale. Dunque 36 persone “scelte” senza alcun criterio e con logica spartitoria, in barba ad ogni regola democratica. Con lo stesso metodo, in virtù del decreto dell’Alto Commissario del 1 settembre ’45, si procedette alla nomina di una Commissione di studio, composta dai rappresentanti dei partiti e da tecnici, per la elaborazione di un progetto di Statuto della Regione siciliana. Il progetto fu elaborato in poco più di tre mesi. Il 23 dicembre ’45 la Consulta, dopo averlo discusso, lo licenziò. Il successivo 15 maggio 1946, con Regio decreto n. 455 a firma di Umberto II , lo Statuto autonomistico venne approvato definitivamente. Tutto, si può dire, venne fatto in fretta e furia, con significative pressioni dei partiti ansiosi di occupare postazioni di comando ma anche preoccupati dall’ingombrante presenza del separatismo e del banditismo.
Lo Statuto ( e l’autonomia speciale), dunque, emette i primi vagiti malamente, senza nessun coinvolgimento democratico del popolo siciliano, nel chiuso delle stanze del nascente potere partitocratico e per giunta approvato con decreto del “re di maggio”. Infatti, tanto per fare un esempio, nello Statuto del ’46 non c’è un articolo dedicato ai diritti di cittadinanza, all’iniziativa legislativa e alla partecipazione popolare, ai referendum consultivi o a quelli abrogativi delle leggi. Dopo mezzo secolo, con legge costituzionale del 2001, lo Statuto è stato “riverniciato” con l’elezione diretta del Presidente della Regione e con l’introduzione degli istituti di democrazia diretta ( il cui esercizio è reso difficile da procedure assai complesse).Uno Statuto quello del ‘46, che continua ad apparire, malgrado i colpi inferti, fatto su misura per i ceti dirigenti siciliani, con prerogative, poteri, organizzazione costituzionale e assetti amministrativi, privilegi e tutele anche giurisdizionali ( per fortuna quest’ultime non più esistenti) da fare rimpiangere persino lo Statuto Albertino. Negli anni successivi, con uno Statuto siffatto si è pensato bene come prima cosa di creare più isole del privilegio. Si cominciò equiparando le indennità dei deputati regionali ,gli stipendi e le liquidazioni del personale dell’Ars a quelle percepite dai senatori e dai dipendenti del Senato della Repubblica.
Poi si passò a creare enti regionali con organici rigonfi, stipendi da capogiro e lucrose indennità per gli amministratori, tutti figli del sottopotere. Mediante sperpero di ingenti risorse pubbliche, sono stati inseguiti faraonici “sogni”: quello industriale ( le creazione degli elefantiaci enti economici), quello minerario, quello agricolo, e cosi via discorrendo. Risultato ? Fallimenti su fallimenti, enti regionali liquidati e alcuni ancora boccheggianti ( con gestioni commissariali insignificanti e attività ridotte quasi a zero), mostruoso rigonfiamento degli organici regionali anche a causa dell’assorbimento del precariato costruito ad arte da certa politica allergica alle regole e ai pubblici concorsi. Le Provincie con lo statuto del ’46 erano state abolite ma tenute in vita come Amministrazioni straordinarie in attesa della nascita dei Consorzi dei comuni. Dopo quarant’anni anziché liquidarle definitivamente, la politica le ha “resuscitate” denominandole “Province regionali. Un ossimoro. Oggi sono tutte commissariate, le loro attività sono quasi nulle, ma la politica, che temporeggia, vuole farle rivivere badando poco ai costi e all’efficienza. Il bilancio regionale si continua a caratterizzare, da oltre mezzo secolo, più per le spese per “servizi” ( stipendi, affitti, indennità, luce, telefoni, auto blu, ecc) che per quelle per “investimento”. Sul fronte delle entrate anno per anno le cose si sono fatte sempre più complicate, come s’incarica di ricordarlo periodicamente ai siciliani la Corte dei Conti. Si potrebbe continuare, ma è bene evitare di sconfinare nell’inverosimile. Nondimeno lo Statuto che la distratta politica difende, piano piano, ripeto, è stato svuotato di contenuto dallo Stato con l’aggravante che, da anni, le tanto sospirate norme d’attuazione di parti importanti della carta statutaria sono al palo. L’Alta corte, giustamente, è stata cancellata.
Il Commissario dello Stato svuotato d’importanti prerogative. Le sezioni della magistratura ordinaria mai istituite. La legislazione esclusiva regionale è continuamente depotenziata dalle leggi “cornice” statali e dalle direttive europee. E poi: che fine ha fatto l’art.31 con riguardo ai poteri di polizia che dovrebbe esercitare il Presidente della Regione? L’art.38, il cosiddetto fondo di solidarietà, e ancora vigente? Quanto versa lo Stato all’erario siculo ? C’è da aggiungere altro? Qui mi fermo per non tediare il lettore. Oggi la situazione è più complessa e molti sono i nodi irrisolti . Un sussulto di dignità politica e d’orgoglio potrà, forse, arrestare il negativo corso delle cose. Si dovrebbe, però, mettere da parte il vaniloquio e puntare alla concretezza. L’autonomia speciale e lo Statuto sono, senza giri di parole, anacronistici e superati, inidonei a determinare nuovi percorsi. Quasi una palla al piede che impedisce il cambiamento. Liberiamocene stabilendo un nuovo “patto” con lo Stato, rivendicando un ruolo centrale per la Sicilia in Europa e nel bacino del Mediterraneo, nel quadro delle politiche d’intervento e delle normative europee e nazionali. Si ridiscuta tutto, senza nostalgie per un passato dove le ombre offuscano le poche luci di timide stagioni riformatrici ( penso, soprattutto, ai governi di Piersanti Mattarella e a quelli di alcuni presidenti “storici”) .
C’è tanto da fare nel settore delle fonti energetiche, delle infrastrutture, del digitale, del commercio dei prodotti agricoli, della pesca ( in questo settore, ormai, è la UE che decide quasi tutto!), dell’accoglienza, degli interscambi culturali, del turismo. C’è spazio per una intensa e nuova progettualità, valorizzando le competenze locali. La Regione del terzo millennio può nascere se ci sarà un forte slancio ideale e una classe politica all’altezza della situazione . Senza furbizie, connivenze e pregiudizi che condizionarono non poco l’infelice “parto” di 75 anni fa.
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