Monrealesi particolari: breve viaggio tra i concittadini del passato

fumetto di Aurelio Di Nicola

Profilo di alcune figure scomparse e gli appellativi con cui erano chiamate

MONREALE, 15 novembre – Iniziamo oggi un rapporto di collaborazione con il professore Aurelio Di Nicola che in questa circostanza ci propone il profilo di alcuni monrealesi un po’ "particolari", che oggi non ci sono più, ma che certamente, soprattutto i meno giovani, ricordano ancora.

A scimmia i lorito
Così era chiamata una donna dall'età imprecisata tra i quaranta e i cinquant'anni, bruttissima, fumava come una turca, sempre vestita di nero, i capelli tirati indietro, da occhiali scurissimi, indossati giorno e notte; vestita da esistenzialista e da esistenzialista si comportava.
Aveva una voce baritonale e greve per il fumo, frequentava studenti e giovani con aria da intellettuali; abitava nel quartiere del Carmine.
Molto nota, partecipava a tutti gli eventi cittadini, era l'antesignana dell'emancipazione femminile, del femminismo ante litteram, era "sparlata" ma mai denigrata; le altre donne ne prendevano le distanze senza però isolarla, l'ascoltavano, non dissentivano, ma i tempi non erano maturi per seguirla.
Resterà sempre una diversa e a me la "scimmia di lorito", come la chiamavano sottovoce tutti, mi intrigava alquanto, era curiosità non timore.

Ciccina a foddi
Era nata nel 1904, Francesca Terrasi detta Ciccina, da una famiglia benestante borghese e strana, stranezza che si accentuerà sino alla pazzia quando Ciccina rimasta sola, vecchia, usciva tutti i giorni per portare i biscotti di Monreale che lei superbamente preparava al forno per cuocerli e rivenderli.
Aveva i rimedi per tutti i mali, conosceva tutti i rimedi naturali, che dovevano
essere efficaci ma come Cassandra non era creduta.
I bambini piccolissimi la temevano e al suo tentativo di accarezzarli strillavano, come la mia Donatella, al ché lei li giustificava dicendo: "a mamma voli"; divenuti grandicelli la perseguitavano, dileggiandola anche se era lei a provocarli.
Raccontava di avere amato perdutamente un ufficiale dei carabinieri, ma era frutto della sua pazza fantasia così come frutto di un sogno era sicuramente il suo amore per il sindaco dottore.
Nella vecchiaia fu perseguita da grandi e piccini che impietosamente la strattonavano, le tiravano pietre, la bagnavano e le facevano, nell'indifferenza generale, ogni genere di sevizie fino a quando il servizio sanitario del Comune non provvide a rinchiuderla in una casa di cura, ex manicomio.
Povera Ciccina era sicuramente intelligente, di una intelligenza acuta propria delle persone eccezionali, dei geni ma anche dei pazzi.
Ho scoperto dopo che non pazzi ma sicuramente strani erano alcuni suoi familiari: una sua nipote Mary, amica di mia sorella, d'estate per non soffrire il caldo prima di andare a letto bagnava le lenzuola.

Agata
Altezza un metro e mezzo, non di più, il viso non brutto lastricato di cerone e olio e crema, le labbra oggi sarebbero giudicate siliconate, rimarcate da cento grammi di rossetto rosso vivo, in testa un basco, d'inverno indossava un cappotto verde molto forte.
La sigaretta accesa pendente dal labbro inferiore.
Si chiamava Agata e noi monrealesi, abituati a Rosalia o Crocifissa, la ritenevamo straniera, ma forse era catanese.
Non dava confidenza a nessuno, credo più per timidezza anzi per difesa che per alterigia, era sicuramente una donna molto moderna, la sua modernità, era giudicata sintomo di stranezza anche perché indossava i pantaloni e trascinava una specie di passeggino senza bambino, dove metteva la spesa: aveva inventato il trolly.
Era in senso assoluto la persona più strana che noi bambini vedevamo e non solo noi, anche la gente comune.

A ciccì
In via Roma accanto all'odierno ambulatorio del dottore Terruso vi era un basso a cui si accedeva da una unica entrata, molto larga con una porta, anzi un portone di legno massiccio, marcito dalle intemperie d'inverno e dal caldo sciroccale d'estate.
A metà portone c'era uno sportello che restava chiuso quando il grande portone veniva aperto, dietro questo sportello era seduta su una grande poltrona una donna nana d'età indefinita tra i 50 e i 70 anni. Lavorava a maglia e questo era il suo sostenimento. I capelli, sale e pepe, erano attaccati alla nuca da alcune forcine da cui scappavano alcune ciocche.
Nonostante la bassa statura aveva un aspetto ieratico, non rideva mai, stava seduta dietro il portellone del catoio in qualunque momento della giornata da quando faceva giorno fino al calare del buio della notte, d'estate e d'inverno, sia che piovesse e tirasse vento sia durante la calura estiva o nelle giornate di scirocco.

Per la sua statura da Ciccia diminutivo di Francesca l'avevano chiamata ciccì e "Ciccì" verranno chiamate a Monreale tutte le nane o donne di bassa statura: somigli alla ciccì, sei una ciccì.
A me faceva paura, passavo sempre dall'altra parte della strada, ritenevo che portasse male, pregiudizio che divenne certezza allorché tornando dalla bavera, dalla casa della zia Lilì, con un fiasco d'olio proprio davanti la casa della Ciccì e sotto il suo sguardo intenso e penetrante inciampai e caddi sul marciapiede rompendo il bottiglione dell'olio e con il vetro rotto mi ferii alla gamba destra.
La Ciccì mia aveva procurato tre danni: 7 anni di malavita tanto nella credenza popolare è giudicata la rottura di una bottiglia d'olio; una ferita alla gamba con  conseguente dolore che io accentuai per evitare il terzo danno, il cazziatone della mamma che non credé all'influsso malefico della ciccì e addebitò il tutto alla mia sbadataggine.

(continua...)