Carissimo direttore,
vedendo martedì scorso un uomo molto avanti negli anni seduto da solo nell’antivilla comunale, mi è venuto spontaneo ripensare ai versi dell’amico professore Pino Scalici, scomparso nel 2003 : “Vecchio…..ti trascini pesantemente per i viali solitari degli alberi anneriti, elemosinando il sorriso del fanciullo senza meta”.
Ed anche alla poesia di Quasimodo pubblicata nel 1930: “Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera.”
Sono due liriche molto espressive nelle quali gli autori esprimono il convincimento che l’uomo è solo con se stesso, anche se vicino agli altri.
A distanza di tanti anni, questa amara constatazione rivela tutta la sua drammatica attualità. La solitudine è diventata una vera e propria patologia del nostro tempo, in cui i legami tra le persone si sono fortemente indeboliti e dove molti vivono ai margini della comunità.
Per i sociologi le restrizioni sociali imposte a causa del Covid-19 hanno ulteriormente accentuato il senso di solitudine soprattutto negli anziani e nei giovani. E’ vero infatti che la pandemia ha fatto emergere ancor di più l’importanza delle nuove tecnologie che hanno rivoluzionato il modo di comunicare; in tale contesto, alcuni anziani, anche se in quiescenza, si sono resi disponibili alle richieste di collaborazione e si sono distinti per i loro gesti di altruismo e di gratuità, mentre tanti altri che non hanno acquisito una cultura digitale si sono ritrovati sempre più soli.
Sono invece aumentati in Italia ( sono circa due milioni ) i giovani che utilizzano unicamente la connessione telematica e si rifugiano nella realtà virtuale.
Sono i giovani cosiddetti Neet, che non studiano, non lavorano, non seguono corsi di formazione, vivono fisicamente appartati. Sono giovani che cercano valori e scopi nuovi per vivere. Sempre più connessi ma anche più soli.
Anche questo disagio giovanile si è ulteriormente accentuato durante il lockdown, soprattutto nelle regioni con il più alto sviluppo tecnologico e nelle famiglie più agiate e più sensibili alla conservazione dei valori tradizionali.
E’ un fenomeno che non può essere sottovalutato e che necessita di un serio approfondimento per individuare a livello comunitario adeguate soluzioni. A Torino, ad esempio, il gruppo Abele, guidato da don Luigi Ciotti, ha attivato recentemente interventi personalizzati in un centro diurno con lo scopo di riportare ad una normale vita sociale e occupazionale i giovani isolatisi. Sono interventi non solo di natura clinica, ma anche educativo-socializzanti, che privilegiano i rapporti con altri ragazzi.Non credo che ci siano ricette precostituite per una problematica così delicata e complessa.
Penso, comunque, che anche nella nostra città siamo chiamati a fare in modo che gli anziani e i ragazzi non si sentano esclusi dalla propria comunità, che riscoprano il valore dei legami che ci permettono di vivere, di comunicare, di amare.
Durante il lockdown abbiamo avvertito l’esigenza di non limitarci al messaggio attraverso lo smartphone , ma di incontrare l’amico per ascoltarlo e condividere emozioni.
Dobbiamo, dunque, aiutare gli anziani ed i ragazzi sempre più soli a scoprire il valore dell’amicizia. A tal fine, dobbiamo poter contare sul senso civico, sullo spirito comunitario e sulla capacità degli Enti, delle associazioni e cooperative, dei centri aggregativi che già si sono distinti nel campo degli interventi sociali, ma anche sui piccoli gesti concreti che ognuno di noi può quotidianamente donare.
Si tratta, a mio modesto avviso, di non alimentare , come afferma Papa Francesco, “la cultura dello scarto”, ma di essere tutti più consapevoli che gli anziani, sono le nostre radici e la nostra storia ed i giovani il presente ed il futuro.
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