L'armata perduta

L'armata perduta

Di Valerio Massimo Manfredi

Talassa! Talassa!
Il grido dei guerrieri greci che, dopo mesi di battaglie in terre sconosciute, fatte di altopiani e di deserti, fra privazioni, fame, sete, malattie, freddo e nemici di ogni sorta, vedono finalmente il mare da lontano e si sentono già a casa ci si scolpisce nel cuore.

L’evento storico diventa nostro, perché condividiamo le sofferenze, le angosce, le speranze e le esultanze di un’armata mitica, i famosi Diecimila di cui parla Senofonte nell’Anabasi. Il V secolo a.C. era cominciato per la Grecia con l’annosa guerra del Peloponneso fra Sparta e Atene, poi costrette ad allearsi per combattere contro la minaccia persiana.

Nell’agosto del 480 l’impresa di Leonida alle Termopili aveva sigillato la supremazia almeno militare di Sparta fra le poleis, ma l’Autore ci invoglia ad un’analisi più critica dei fatti storici.

I Diecimila erano mercenari arruolati da Ciro nel 401 a.C. per rovesciare il trono di Artaserse. La parte più temibile di questa armata era costituita dai famosi “mantelli rossi”, esercito della morte, spartani allenati esclusivamente alla guerra, vere e proprie macchine da combattimento. Manfredi condivide l’ipotesi storica secondo cui il governo spartano avesse concesso a Ciro l’esercito dei mantelli rossi in cambio dell’aiuto economico e militare fornito a Sparta dai Persiani durante la guerra contro Atene.

Dunque i Diecimila potevano soltanto vincere o essere annientati, perché, se avesse vinto Ciro e fosse diventato Gran Re dei Persiani, era evidente il vantaggio che ne avrebbe tratto Sparta, ma se avesse perso, il governo spartano avrebbe dovuto dimostrare ad Artaserse la propria estraneità ai fatti per garantire buoni rapporti con l’impero persiano e non si potevano certo accogliere nel trionfo i Diecimila reduci da un’impresa indubbiamente epica: quell’esercito, d’altronde, non avrebbe mai potuto fare ritorno in patria, attraversando un territorio ostile, fino ai confini dell’Azerbaijan, durante la stagione invernale, percorrendo valichi montani impervi e sconosciuti, fra tribù selvagge e sanguinarie.

Tale ipotesi è anche suffragata dal fatto che Senofonte, autorevole reporter della spedizione, tace stranamente sui tre mesi di ritorno, lungo le coste del Ponto Eusino. Questi i fatti. Ma la lettura del libro è appassionante per tante “trovate” geniali dell’Autore: innanzi tutto la voce narrante è quella di una donna. Sì una donna in battaglia, a seguito dei Diecimila. Per giunta, non si tratta di una principessa, o di una vestale colta, ma di una ragazza semplice di uno dei villaggi di Beth Qadà che, essendo stata promessa in sposa ad un uomo che non le piace, si lascia rapire volentieri da un uomo che risulta poi essere Senofonte in persona.

Parla dunque Abira, la compagna di Senofonte, analfabeta, semplice, ignorante, ma non stupida. Abira partecipa alle sorti dell’esercito e medita in cuor suo, osservando comportamenti e coincidenze che Senofonte non nota, o a cui non dà importanza. Ella non giudica e non s’intromette, erede di una tradizione millenaria secondo cui la donna non deve capire, ma solo accettare gli eventi. Una sera, però, spinta da sospetti divenuti non più sopportabili, sventa il tradimento: i Diecimila sono stati raggirati! Occorre tornare indietro.

Storia d’amore e di guerra che spinge anche a rivedere la geografia dei luoghi narrati, i nomi dei fiumi, le unità di misura greche e persiane, le tattiche di guerra, le conoscenze dei chirurghi, le calzature, l’osservazione del cielo. Ci si trova turbati e addolorati per dover abbandonare nella tormenta di neve in alta montagna una povera prostituta di infima classe che non riesce a partorire il suo bambino e muore di stenti fra le braccia di Abira. Si prova invidia per la visione di quella natura incontaminata, decritta con maestria, eleganza e amore: un tuffo nel mondo greco e medio-orientale a cui è davvero difficile restare indifferenti.

 

L'armata perduta
di Valerio Massimo Manfredi

Mondadori - ISBN 8804562102