Nell'anniversario della Festa della Repubblica, alcune riflessioni sulla scritta fascista in Piazza Guglielmo II
MONREALE, 2 giugno – ''L'Italia è un'isola che si immerge nel Mediterraneo. Se per gli altri il Mediterraneo è una strada, per noi italiani è la vita!''.
Il tempo risana sempre le ferite. E' vero anche che – in questo caso – può sbiadirle. Corrode, erode. Trita, come un roditore (deriva da lì in effetti). Passo dopo passo – oggi di meno, domani un po' di più. Senza fretta, senza ansia. Millimetro dopo millimetro - di inchiostro, di calce. Oggi più d'ogni altro giorno forse quella scritta nasconde i suoi altisonanti caratteri dietro la ferocia abbagliante del sole.
Cerca di eludere lo sguardo di una vita che scorre e scorrerà per sempre ai suoi piedi. Rifugiandosi tra le sue crepe. Tempo, paradigma di Storia. L'Italia non era, non è e non sarà un'isola – né ieri, né oggi, né nei restanti secoli che Tempo e Storia hanno in programma. Quel Mediterraneo nel quale si immerge non è spazio vitale impercorribile, recintato, interdetto all'esterno, all'altro. Fu strada e vita, nello stesso medesimo istante. Forse fu vita per tutti proprio perché fu strada, crocevia di sentimenti distanti – di una distanza che scoprì presto l'incosistenza della lontananza e la ricchezza della prossimità.
Quell'1 Novembre del '36, in una Piazza del Duomo – a Milano – gremita da circa 250mila spettatori, alzando il timbro di voce nella domenica d'Ognissanti e pronunciando proprio questa frase, non avrebbe saputo (lui) che in un'altra domenica – dieci anni dopo – gli italiani, con la pelle ancora bruciante per le ferite, avrebbero smesso di credersi un'isola. Ancora una volta, Tempo sarebbe passato. E Tempo, dopo quelle esultanze di giubilo alte nel plumbeo cielo di Milano, avrebbe portato 'la bufera che sgronda sulle foglie/ dure della magnolia i lunghi tuoni/ marzolini e la grandine' come avrebbe eternato nei suoi versi il Dante del Novecento, Eugenio Montale: 'E poi lo schianto rude, i sistri, il fremere/ dei tamburelli sulla fossa fuia,/ lo scalpicciare del fandango, e sopra/ qualche gesto che annaspa'. Gli italiani – dieci anni dopo, scampata la bufera della guerra, annaspanti in mezzo alle macerie che essa aveva loro lasciato in eredità, al termine del suo convulso e drammatico fandango - avrebbero smesso di credersi atomi e insieme infinitesime parti di un organismo a sé stante, magniloquente – teatralmente monumentale. Avrebbero accettato a buon cuore piuttosto di essere 'una cosa piccola, ma alquanto seria'. Avrebbero accettato che Tempo e Storia mettessero loro dinanzi, come ostacoli di un cammino che persiste, tanti errori quanti altrettanti sbagli. Aprendo la porta a nuove e vecchie manovre, dentro e fuori le aule. Inciampi che sono fasi di un processo di maturazione che forse non è ancora finito.
Nell'angusto ma tutt'altro che asettico spazio di una cabina elettorale, non avrebbero dimenticato il volto e le parole di Giacomo Matteotti, il cui cadavere fu ritrovato due mesi dopo la scomparsa, nella campagna della Capitale. Non avrebbero dimenticato quante vite innocenti perirorono asfissiate dalle bombe a gas in Etiopia: ''Faccetta nera, bell'abissina […] noi te daremo un'altra legge e un altro Re''. Non avrebbero dimenticato nemmeno la caccia a qualche topo da mangiare, con le mani gelate e negli occhi lo specchio artico del fiume Don, in Russia. Né la vergogna d'indossare l'uniforme al risuonare della voce metallica – alla radio - di Badoglio, l'8 settembre del '43. Né le lettere riposte sul tavolo, nel cuore della notte, alla luce gracile di qualche lume con su scritto ''Mamma, perdonami. Io salgo in collina, a combattere''.
Soprattutto non avrebbero dimenticato quella mancata firma del re Vittorio Emanuele III sullo stato d'assedio contro quella che poi sarebbe stata la Marcia – l'inizio di tutto. Lì, dentro quella cabina elettorale, non tutti sarebbero stati dalla stessa parte, certo. La monarchia non prevalse per soli 2milioni di voti – una briciola che infatti fece presto alzar la voce al fronte monarchico, indicante il broglio. L'Italia non era un'isola - certo – ma tremendamente scissa, sì lo era. Non tutti forse coraggiosamente convinti delle prospettive di vita di una Repubblica, troppo giovane, troppo inesperta.
Molti forse illusi dell'idea che 'se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi'. Ma nonostante ciò, ognuno di essi profondamente, intimamente consapevole di un'unica grande conquista: la libertà. Libertà, anche di dire 'no'. Orgoglioso solo di una penna e di un foglio di carta. Inchiostro e carta, nient'altro. Uomini e donne, insieme – cittadini, autori, protagonisti. Del loro futuro, di questo nostro presente.