Blur Building: architettura di separazione e connessione

Ad essere stato maggiormente coinvolto nella situazione pandemica del 2020 è l’uomo come essere umano, che ha iniziato a percepire lo spazio e il tempo in modo diverso rispetto a prima. La visione attuale della dimensione spaziale e temporale può essere espressa dall’installazione site-specific Blur Building (Diller Scofidio + Renfro, Svizzera, 2002) e, nello specifico, dalla relazione tra l’utente e il luogo in analisi.

Blur Building è un’architettura atmosferica, una massa di nebbia risultante da forze naturali e ar­tificiali. Ivi l’acqua viene pompata dal lago, filtrata e spruzzata come una nebbia attraverso ugelli ad alta pressione, il che comporta una perdita immediata dei riferimenti visivi e acustici. Così, non rimane nulla da vedere se non la nostra dipendenza dalla visione stessa; resta soltanto un “white-out” ottico e il rumore degli ugelli pulsanti.

Ciò che è chiaro è l’interpretazione della nebbia come mezzo di disorientamento, di separazione tra persone, dovuta a cause esterne, e della conseguente consapevolezza dell’individualità. Per questo, l’esperienza dell’utente all’interno di Blur Building diventa metafora del sentimento psico­logico dell’essere umano nel 2020 e del nuovo spazio domestico, che può essere letto attraverso tre antinomie: individuale/collettivo, connesso/isolato, privato/pubblico.

Individuale/Collettivo
Quando i visitatori entrano all’interno dell’installazione, si trovano in uno spazio libero dove po­ter muoversi senza schemi di traffico prestabiliti, corridoi o muri che li guidino o li contengano. Non per altro il sito è stato identificato dalla frase “Il pubblico può bere l’edificio”, anche se solo apparentemente esso risulta essere un luogo di totale libertà, soprattutto se lo si interpreta con gli occhi di un uomo del 2020. Difatti, solo all’inizio dell’esperienza il flusso delle persone è fluido come un fiume e limpido, così come il paesaggio che si ammira dalla struttura e il suono della natura. É quando gli ugelli si attivano, che ognuno inizia a percepire la pressione della “barriera” visiva e rumorosa e, subito dopo, avverte un senso di distacco dall’altro, pur rimanendo immobile in maniera caotica.

Ogni individuo vive una situazione di disagio, che lo porta a non essere più parte della colletti­vità disordinata, bensì immobilizzato e cosciente dell’area circoscritta in cui è fermo. Traslando tale sensazione nella società esistente, forse l’epoca odierna avrebbe richiesto le minuscole case individuali e multifunzionali che seguono il concetto di Sullivan “la forma segue la funzione “o an­che quello dell’ ”existenzminimum” di Le Corbusier. Probabilmente, spostandosi in un contesto urbano più complesso, una soluzione idonea sarebbe stata quella delle singole “case-gabbia” di Kyoto (Suiden-ann Hostel SUI by Alphavile Architects), vere e proprie celle private con ingresso indipendente inserite in uno spazio collettivo unico.

In antitesi a quanto detto fino ad’ora, se si guarda l’installazione come spazio fisico attivo, essa può essere interpretata come contrastante rispetto all’attuale situazione emergenziale. Infatti, dal punto di vista architettonico rimanere oggi all’interno del Blur Building potrebbe essere molto pericoloso. Ciò che nella realtà artistica è uno spazio urbano troppo affollato, denso, veloce, oggi antiteticamente diventerebbe vuoto e semideserto. Le relazioni in spazi continuamente diversi lascerebbero il posto a una relazione familiare “ristretta” in un unico spazio. Si parlerebbe di “spazio obbligatorio” dal quale non sarebbe difficile sottrarsi ed entro il quale vivere relazioni vigilate, che ci piaccia o no, ci avvicinerebbero all’idea del Panopticon di Bentham.

Connesso/Isolato
Il visitatore del Blur Building annuncia non solo una distorsione della concezione dello spazio ma anche del tempo. A causa della forte relazione tra queste due coordinate, quando manca l’intuizione della prima, anche l’altra diventa “sfocata”. Il tempo non è più soggetto agli impe­gni quotidiani marcati e viene percepito come privo di orologio, ascetico, libero, ampio, proprio come durante il periodo del lockdown. Basti pensare alla parola sfocatura, che letteralmente significa fuori fuoco e chiarisce una dimensione “non distinguibile”. Blur Building, infatti, si con­centra sull’interazione fisica ed emotiva con il visitatore e diventa manifestazione della coppia dialettica vicino/lontano.
È nel momento in cui le persone non riescono a percepirsi visivamente ed avvertono, conseguenzialmente, una dilatazione temporale, che lo spazio comune si trasfor­ma in spazio privato e l’immobilizzazione fisica e mentale di ciascuno richiede necessariamente una soluzione per connetterlo all’altro...agli altri. Con ciò si figura metaforicamente il profondo bisogno di ciascuno di noi di sentirsi connesso con il mondo esterno, anche se isolato a causa della pandemia. Ognuno diventa cosciente del proprio tempo, della propria solitudine, della mancanza del contatto. È qui che il digitale viene in soccorso come mezzo di connessione, quindi diventa la conditio sine qua non affinchè improvvisamente ci si senta meno soli. Il digitale inizia ad acquisire la connotazione di conoscenza, apre lo sguardo all’indistinto, all’incommensurabile, diviene l’altro sguardo oltre la finestra, capace di suscitare emozioni nonostante la distanza.

Privato/Pubblico
Ma quale potrebbe essere una soluzione più “concreta” su come collegare i nuovi spazi privati a cui ciascuno di noi è stato costretto? Come creare un’”area comune di sicurezza”? Purtroppo la pandemia ha messo in crisi il senso della vista, nonchè la coordinata spaziale più importante per la sopravvivenza e l’interazione in un contesto pubblico. Se ci allontaniamo un po’ dall’interpreta­zione sopra espressa sulla nebbia all’interno del Blur Building e diamo ad essa un’accezione posi­tiva, l’offuscamento potrebbe essere interpretato come una sorta di ponte tra pubblico e privato,

quindi tra esterno ed interno rispettivamente. L’installazione intende, quindi, mettere in discus­sione i principi tradizionali della disciplina architettonica grazie alla completa fusione tra outdoor (il paesaggio circostante) e indoor (l’installazione stessa), per sottolineare la necessità di “sentirsi fuori anche se si è dentro”. La nebbia assurge a questa funzione e diventa metaforicamente assi­milabile ad ogni elemento che ci ha permesso di istituire un legame con la reatà esterna durante i momenti di totale isolamento.
Tale metafora diviene riconducibile alle nuove sperimentazioni tipologiche di alloggi flessibili e connessi con l’ambiente esterno grazie a spazi intermedi come balconi o, più estesamente, spazi condominiali come i tetti dei giardini. Il balcone, il tetto e il giardino sono stati solo alcuni degli elementi architettonici rivalutati durante l’isolamento, in quanto non solo strumenti di connessione fisici ma anche psicologici. Essi hanno contribuito ad allontanarci dalla sensazione claustrofobica del lockdown, facendo sì che ci proiettassimo verso una nuova dimensione di “respiro” dello spazio, diventando nuova area comune di sicurezza.