Il nostro dialetto, un ricchezza in più per non rinnegare le nostre origini

Intervista alla giornalista e scrittrice monrealese, Amelia Crisantino a proposito del suo ultimo libro di fiabe

MONREALE, 20 novembre - L'ultimo libro di Amelia Crisantino è un libro di fiabe siciliane e, considerati gli argomenti affrontati in passato dalla nostra concittadina, almeno ad un primo sguardo è un libro sorprendente.

Per fermarci solo ai lavori sulla storia di Monreale, ricordiamo che nel 2000 la Crisantino ha pubblicato Della segreta e operosa associazione (edito da Sellerio) dove la protagonista è Monreale dopo l'Unità d'Italia. Fra il 2010 e il 2012 è la volta di alcuni saggi sul '700 monrealese, e del resto il XVIII secolo è l'epoca d'oro della nostra città: Monreale viene rifondata dall'arcivescovo Francesco Testa, il quale fra le altre cose costruisce la via-monumento che dalla Rocca conduce in paese (saggi che si possono leggere anche on line, sul sito della rivista «Mediterranea ricerche storiche»). Abbiamo scelto di incontrare Amelia Crisantino e la nostra conversazione non poteva che partire da una domanda obbligata:

Come mai ha pubblicato un libro di fiabe, dopo i saggi di storia?
Sono fiabe particolari, raccolte dall'etnologo Giuseppe Pitrè e pubblicate per la prima volta nel 1875: erano in quattro volumi, ho scelto quelle che mi sono sembrate le più belle e le ho tradotte dal dialetto di allora. Le ho di nuovo raccontate, ho cercato di rimetterle in circolazioni perché sono importanti per definire la nostra identità.

Sono fiabe per bambini?
No, non come le intendiamo adesso. Quando non c'era la televisione le serate erano molto lunghe, qualcuno narrava e ad ascoltare c'erano i bambini, i ragazzi quelli più grandicelli pure gli adulti. Erano racconti per tutti

Chi raccontava?
Soprattutto le donne. Le più belle fiabe sono raccontate da Agatuzza Messia, una popolana del quartiere Borgo dove Pitrè era nato e dove lavorava come medico.

Ma non era un etnologo, uno che raccoglieva le tradizioni popolari?
Sì, certo. Però per vivere faceva il medico: diciamo che aveva la vocazione del ricercatore, era sempre a studiare le vecchie tradizioni prima che svanissero.

Quindi fiabe raccontate soprattutto da donne. E i protagonisti?
Sono fiabe siciliane. E spesso troviamo aspetti della vita del popolo. Ad esempio, in Peppi sperso per il mondo il protagonista lascia la sua casa perché non ha lavoro: gli ostacoli da superare sono prove di abilità, il miracolo è la frutta fuori stagione dove prima c'era solo il latifondo coltivato a grano. L'aspetto sorprendente è che non solo i narratori ma spesso anche i i protagonisti sono donne.

Che tipo di donne?
Sono ragazze molto diverse dall'immagine che abbiamo della donna siciliana dell'800, che in realtà è solo un'idea standard. Uno stereotipo. Noi che immaginiamo? Ragazze fragili e bisognose di protezione, per niente autonome. E inveceledonne che troviamo in queste fiabe sono molto diverse: sono intraprendenti, decidono, partono da sole. Sono davvero una sorpresa.

Ci sono differenze fra le fiabe raccontate dagli uomini e quelle raccontate dalle donne?
 Quando è una donna a raccontate allora la fiaba è più avventurosa, con pochi elementi magici. E naturalmente ha come protagonista una donna, che spesso dimostra di essere molto in gamba.

Attraverso le fiabe ci ritroviamo nella Sicilia dell'800?
È così. La storia non è fatta soltanto di battaglie e conquiste, le fiabe ci raccontano molti aspetti della vita del popolo: le sue credenze, le paure, le preoccupazioni di ogni giorno. E ce lo raccontano in presa diretta, Pitrè era puntiglioso e le sue trascrizioni erano molto fedeli.

Com'è stato tradurre dal dialetto del 1870?
Non sempre è stato facile. A me piace il nostro dialetto e penso di conoscerlo, o almeno conosco quello che usiamo ogni giorno. Ma qualche volta, quando nemmeno io capivo il significato preciso di una parola, cercavo aiuto nel dizionario siciliano/italiano.

Pensa che il dialetto sia da rivalutare?
È una ricchezza in più, non è in alternativa all'italiano. Il dialetto è la lingua dei rapporti familiari, ha delle sfumature che l'italiano non conosce. Ci sono tanti modi di dire che sono intraducibili, che perdono sapore una volta resi in italiano. Ad esempio, in dialetto si dice "punciri u sceccu 'nna muntata": possiamo tradurre letteralmente, ma in realtà è intraducibile. Rispettare la nostra identità per me significa rivalutare anche il dialetto, ma senza operazioni nostalgiche. Il mondo corre, siamo in piena globalizzazione. Il dialetto, cioè la nostra prima lingua, arricchisce il nostro essere cittadini del mondo che non rinnegano le proprie radici.