Libero Grassi, 30 anni fa la prima denuncia contro la mafia

Compiva ieri 30 anni la lettera inviata al Giornale di Sicilia in cui parlava pubblicamente delle minacce ricevute

MONREALE, 11 gennaio – “Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia”.

“Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere…Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.
Da queste parole scritte da Libero Grassi, imprenditore catanese del settore tessile divenuto famoso per la sua lotta contro la mafia, si evince tutta la volontà di non sottomettersi alla prepotenza della criminalità organizzata. Un segnale fortissimo, che lo fece divenire presto un simbolo come pochi. L’11 aprile dello stesso anno Libero Grassi rese una lunga intervista a Michele Santoro, durante una puntata della trasmissione “Samarcanda”. Un’esposizione pubblica ancora più ricca di significato, un’occasione in cui l’imprenditore siciliano disse: “C’è il primato della legge, il primato della politica, il primato della morale, ma c’è un primato superiore: quello della qualità del consenso. La formazione del consenso, che poi è l’arma della mafia. E la prima cosa che controlla la mafia è il voto. A una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia. I valori morali sono transeunti, sono contemporanei. Non c’è un valore morale, non c’è una legge valida per sempre, la legge la fanno i politici, la fanno buona, la fanno cattiva, è relativa al consenso. Sempre. Se i politici hanno un cattivo consenso faranno una cattiva legge. E allora noi dobbiamo curare la qualità del consenso”.

E ancora: “Non posso pagare il pizzo perché è una rinunzia alla mia dignità di imprenditore. Questo implicherebbe dividere le scelte con il mafioso”. Si stava proprio recando a lavoro, quella mattina del 29 agosto 1991, quando quattro colpi di pistola misero fine alla sua vita, ma non alla sua lotta. Sarà la moglie, Pina Maisano Grassi, a continuare la battaglia sociale e politica contro Cosa Nostra, divenendo anche senatrice. Dovranno passare quasi diciassette anni perché Salvatore Madonia, Marco Favaloro e l’intera cupola mafiosa vengano condannati al 41-bis per l’omicidio, avvenuto a Palermo. Una giustizia lenta, una vicenda giudiziaria tortuosa, una lotta fiera e coraggiosa, degna di un uomo che ha dedicato la sua intera esistenza al lavoro onesto e alla lotta contro la mafia, portata avanti sempre a testa alta.