Peppino Impastato, il ricordo a 43 anni dall’attentato mafioso che gli tolse la vita

Decisiva la lunga battaglia della madre, Felicia Bartolotta, per la condanna dei mandanti dell’omicidio

MONREALE, 9 maggio – E’ il settembre del 2000 quando nelle sale cinematografiche esce il film “I cento passi”, diretto da Marco Tullio Giordana e con attore protagonista Luigi Lo Cascio.

L’opera racconta la vita di un giovane siciliano, Giuseppe Impastato, detto Peppino, rimasto ucciso da Cosa Nostra ben 22 anni prima: eppure, fino a quel momento, la storia di Peppino era rimasta pressoché sconosciuta, in Italia non la ricordava più nessuno, perché la Sicilia era stata battezzata come terra predestinata e senza molte speranze. La violenza mafiosa aveva sempre avuto la meglio, chi avrebbe potuto salvare quell’isola maledetta, continuamente vessata, e la sua gente?

Ma il film contribuisce mirabilmente a riaccendere la memoria e dà una nuova possibilità a Peppino, che dopo tanti anni è ancora in attesa di giustizia. E’ il 5 gennaio 1948 quando a Cinisi, dall’unione di Felicia Bartolotta e Luigi Impastato, nasce Peppino. Il suo papà viene costretto al soggiorno obbligato per mafia durante il ventennio fascista e lo zio, Cesare Manzella, è un boss: la mafia, a casa di Peppino, è una realtà che si respira continuamente, concreta e apparentemente inevitabile. Ma il ragazzo non si arrende e decide di andare per la sua strada, ponendosi fin da giovanissimo contro il padre. A soli 17 anni, nel 1965, fonda il giornale “L’idea socialista”, mentre tre anni dopo aderisce alla Nuova Sinistra. “Cominciò a fare politica a 15 anni” racconta la madre. “A 16, 17 anni fece il primo comizio, sempre basato sulla mafia”.

Sarà nel 1977 che la sua voce e la sua presenza in paese cominceranno a diventare scomode e a generare non pochi malumori tra le famiglie mafiose: in quell’anno infatti Peppino fonda “Radio Aut”, il mezzo attraverso il quale denuncerà in modo sempre più costante Cosa Nostra e i suoi componenti, primo fra tutti Gaetano Badalamenti, capomafia di Cinisi. Peppino, con sottofondi musicali da film western, si prenderà gioco dei boss e dei loro leccapiedi, tra cui suo padre, ridicolizzandoli: non cela il suo disprezzo nei loro confronti neanche a casa, durante i pasti in famiglia.

“Quando cominciava a parlare male di Tano Badalamenti, mio marito lo buttava fuori di casa e io lo andavo a riprendere. Tutti i giorni chiamavano mio marito intimandogli di farlo smettere: mi aspettavo che lo avrebbero ucciso” narra Felicia Bartolotta. Familiari e amici del padre provano in tutti i modi a distogliere Peppino dalla sua lotta politica contro la mafia, cercano di convincerlo a lasciare l’Italia, gli prospettano una vita bellissima e felice lontano dalla Sicilia, ma lui non ne vuole sapere: non ha alcuna intenzione di abbandonare il suo popolo, non vuole che la mafia vinca, ancora una volta. Per questo si candida nelle liste della Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, poco prima di rimanere vittima di un tremendo attentato.

E’ il 9 maggio 1978, un momento della storia italiana ricordato tristemente per un evento in particolare: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, maggiore esponente della Democrazia Cristiana rapito un paio di mesi prima dalle Brigate Rosse. Anche per questo quasi nessuno, per anni e anni, si preoccupa di questo giovane siciliano morto nella notte tra lunedì 8 e martedì 9, di cui si sente una leggera eco, liquidato fin da subito come un terrorista che si è fatto saltare in aria sui binari nel tentativo di combinare chissà quale strage. “Si è suicidato”, “La mafia non c’entra niente”, dirà chiunque alla madre Felicia e al fratello Giovanni per lungo tempo, ed è un’opinione condivisa anche dalle istituzioni.

Nel marzo del 2001 e nell’aprile 2002 verranno condannati per l’omicidio, rispettivamente a 30 anni di carcere e all’ergastolo, Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti. Una vicenda giudiziaria tortuosa e zeppa di depistaggi, una verità lentissima ad arrivare. L’impegno di mamma Felicia, con le sue denunce le sue testimonianze in tanti processi, sarà il più nobile, coerente e commovente di tutti. “Abbiamo fatto il funerale con quattro pezzi di carne che sono rimasti. Una fine barbara ci ficiru fare”. Felicia Bartolotta, rigettando la mafiosità che aveva caratterizzato la vita insieme al marito, chiarisce fin dal primo momento che non desidera alcuna vendetta per il figlio, ma solo giustizia. Questa donna determinata e coraggiosa morirà il 7 dicembre 2004, a nemmeno tre anni di distanza dalle condanne per l’omicidio di Peppino. Anche se è difficile crederlo, voglio augurarmi che le sentenze abbiano dato a questa madre una minima, seppur amara e dolorosa, pace. La “Casa Memoria Peppino e Felicia Impastato” e il “Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato” sono due fondazioni impegnate nel contrasto alla criminalità organizzata e alla divulgazione dell’eredità politica e culturale lasciataci da Peppino, un ragazzo che rende le persone oneste orgogliose di essere siciliane: perché, ricordiamolo, “la mafia è una montagna di merda”.